Separare nettamente il Bancoposta dalle Poste per poi arrivare, in un secondo tempo, alla sua vendita con una fuoriuscita dello Stato dall’attività creditizia? L’idea non è più tabù. È stato il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, in una recente audizione in Parlamento ad annunciare che sul suo tavolo c’è anche questo dossier. Una mossa richiesta da anni dall’Antitrust che darebbe una svolta a quelle liberalizzazioni che finora non sono per niente decollate.
Ma separare e vendere parte o tutto il Bancoposta non è un’impresa facile, tanto che se ne parla da moltissimi anni e il dossier dopo un po’ di tempo viene regolarmente archiviato in qualche armadio polveroso in attesa di tempi migliori. Il punto è che per cedere questo asset bisognerebbe prima di tutto dividerlo fisicamente dal resto, ovvero dalla casa madre, Poste Italiane. Un problema immenso perché Poste e Bancoposta sono da sempre intrecciati fra di loro, a cominciare naturalmente dai luoghi fisici in cui operano, che sono gli stessi, dal personale e dalle apparecchiature tecnologiche. In più le Poste Italiane, senza Bancoposta diventerebbero un’impresa senza reale capacità di produrre reddito, con 150 mila persone da mantenere e 14 mila sportelli. Così fra i tecnici si sta facendo strada un Piano B, di più facile e immediata realizzazione: vendere un pezzo di tutto il complesso Poste Italiane con l’obiettivo almeno di far cassa introducendo una parziale liberalizzazione con l’ingresso dei privati.
Ma quanto può valere Poste Italiane? La stima fatta da Deutsche Bank due anni fa in occasione dello swap di partecipazioni tra la Cdp e il Tesoro, 10 miliardi, sembra lontana dalla realtà. C’è chi parla del doppio o anche del triplo. Cifre possibili per un gruppo che custodisce un forziere da 400 miliardi di risparmi, effettua investimenti autofinanziati per 700 milioni all’anno e produce utili di 1 miliardo, che finiscono in gran parte nelle casse del Tesoro sotto forma di dividendi.
La separazione tra Bancoposta e casa madre potrebbe intanto andare avanti creando le condizioni per una futura vendita. E comunque è un processo che è iniziato da anni. Fu la Banca d’Italia a chiederla molti anni fa e si cominciò con una distinzione contabile fra le due entità. L’ultimo step di questo processo è stato introdotto con il Milleproroghe di un anno fa quando è stato richiesto al Bancoposta di costituire un patrimonio destinato a coprire la propria attività specifica. Una sorta di Core Tier 1, che però non copre dal rischio di credito, che il Bancoposta non ha in quanto vende soltanto prodotti di altri in cui sono gli altri a rischiare in proprio, ma dal rischio operativo (ad esempio, errori contabili).
Proprio questo processo di separazione ha creato alcuni fatti nuovi nella contabilità delle Poste. Nonostante sia l’attività del Bancoposta a produrre i veri utili della gestione (quella solo postale ha generato lo scorso anno una perdita di 130 milioni) in realtà alla branca di Poste Industriale fa capo il 60 per cento degli utili (ovverosia, 600 milioni di quel miliardo di cui abbiamo parlato). Com’è possibile? Per comprenderlo bisogna pensare che Poste Industriale fornisce un’infrastruttura fisica, logistica e informatica a tutte le attività che in essa si svolgono. Dunque all’attività di Bancoposta per i conti correnti e i prodotti finanziari, ma anche a Poste Mobile (l’operatore virtuale telefonico di Poste), alla Cassa depositi e prestiti per i libretti e i Buoni postali fruttiferi, a Poste Vita (oggi il primo operatore italiano del ramo) per la vendita di assicurazioni. Con ognuno di questi soggetti – siano essi interni al gruppo o esterni come la Cdp – esistono appositi contratti di servizio che fissano le commissioni per Poste Italiane.
Scorporare il Bancoposta è dunque possibile ma forse, per chi comprerebbe una quota o il tutto, sarebbe meno remunerativo di quanto non sembri. Inoltre, il governo deve porsi un altro problema. Cedendo la parte più ricca del business, che produce un cash flow positivo di circa 1 miliardo all’anno, lo Stato certo incasserebbe qualche miliardo con cui abbattere il debito pubblico e dare un segnale positivo alla comunità finanziaria, ma dovrebbe rinunciare agli utili futuri. Se poi il governo dovesse decidere per una vendita in toto del Bancoposta – com’è stato fatto in Germania, dove è finito a Deutsche Bank – gli utili futuri sarebbero ancora più bassi e allo Stato rimarrebbe soltanto il servizio postale, che è in perdita. È comunque vero che rimarrebbero le pingui commissioni per il contratto di servizio.
Queste considerazioni hanno indotto alcuni tecnici dello Stato a formulare anche l’altra ipotesi, appunto il piano B: vendere una quota non del Bancoposta ma di tutte le Poste Italiane. Cioè tutto il bene ma anche, per così dire, tutto il “male”. Una possibilità sarebbe quella di fare un private placement presso alcuni investitori istituzionali intenzionati a fare un investimento di lungo termine. Il modello sarebbe quello della Cdp, dove un terzo del capitale è in mano alle Fondazioni. Purtroppo, però, le Fondazioni oggi hanno ben altri problemi. L’ingresso di fondi pensione o investitori istituzionali di altri paesi sarebbe possibile, anche se c’è chi teme che questi soggetti possano condizionare le future politiche, magari in un senso più marcatamente di mercato, andando contro le esigenze più “sociali”.
Il modello italiano, simile in tutta Europa solo a quello francese, è fatto in modo che l’insieme regga il tutto. Ovvero ciò che è conveniente fare per la collettività e ciò che è remunerativo convivono in un crogiuolo indistinto, da cui però emerge un sicuro dividendo. Un’altra possibilità – ancora tutta da studiare sarebbe quella di portare in Borsa una quota di Poste Italiane da distribuire ai piccoli investitori con pacchetti molti frazionati. Così l’interferenza con le politiche di gestione sarebbe minore, mentre lo Stato farebbe un po’ di cassa. Qualunque sarà la decisione di Passera, di certo ha in mano una patata bollente.
Autore: Adriano Bonafede – La Repubblica Affari & Finanza (Articolo originale)