Se si abbandona la via maestra è facile perdersi e fare brutti incontri: anche nel capitalismo relazionale. Nel caso del gruppo Ligresti-Fonsai la diritta via, più che smarrita, non fu proprio mai presa, parvero meglio scorciatoie nelle selve oscure: ovvio che, dietro lonze leggere, siano apparsi presto lupi.
Arriveranno i leoni
Come disse Enrico Cuccia, chi inizia ad allacciare male il cappotto, sbaglia fino in fondo. Quotato nell’89 con una forzatura di Mediobanca ai danni del mercato, il gruppo prima inflisse perdite gigantesche a chi aveva ceduto, poi acquistò Fondiaria con prestidigitazione apprezzata in via Filodrammatici, che la voleva sottrarre alla sabauda traditora. La quotata Premafin diventò così scatola cinese, per controllare un gruppo con i soldi altrui. Il tutto eludendo l’obbligo di offerta pubblica di acquisto (Opa), in tali casi necessaria, grazie a maneggi scoperti solo troppo tardi (per gli incisivi poteri ispettivi dell’ Antitrust) e sanzionati da sentenza della magistratura. La lunga catena di controllo impediva di rimpolpare le esangui finanze familiari con i dividendi? Niente paura, esse andavano rabboccate, nei piani dello Stato maggiore, con l’incasso (ben 500 milioni in tre anni!) per la vendita, dalle finanziarie a monte del gruppo alle controllate quotate, di cespiti che nessuno voleva e bisognosi di cospicui investimenti. I corsi di Premafin erano intanto sostenuti da operazioni fasulle che finivano per rinforzare il controllo già asfissiante dei Ligresti, con lo schermo di oscuri trust caraibici.
Su tutto ha vegliato, lesto e flessuoso come un leone marmoreo, l’Isvap, regolatore delle assicurazioni, retto quale presidente negli ultimi 10 anni da Giancarlo Giannini (nella foto). Arrivati all’ultimo bottone, il cappotto rivela quel che chiunque da sempre poteva capire. Crolla un gruppo metodicamente costruito sulla finzione, lo dimostrano le vicende sopra dette. La domanda che conta ora è solo una: se si è potuti andare avanti così 23 anni, ma che Paese siamo, che establishment economico abbiamo? Soprattutto, può esso credibilmente proporsi come gestore dell’uscita da una crisi al cui maturare ha assistito acquiescente, quando non attivo partecipe?
È bastato a Ligresti, per parere interlocutore affidabile e soggetto di buon comando, accumulare negli anni, soprattutto a valle – in Fonsai, dove i soldi sono altrui – un giardinetto di partecipazioni di minoranza che va da Mediobanca a Rizzoli-Corriere della Sera e a Pirelli, con puntate in direzione delle Generali.
Piccolo mondo antico
Attraverso tale prisma va vista la lotta che infuria su Fonsai fra opposti dioscuri: Mediobanca/Unicredit e Palladio/Sator. I primi, per proteggere i loro crediti (Mediobanca, subordinati per 1.100 milioni a Fonsai, Unicredit per 300 milioni alle finanziarie «alte»), vogliono che il controllo di Fonsai passi a Unipol, con una complicata sequenza di passi comprendenti la fusione fra Premafin (a patrimonio netto subacqueo) e compagnie assicurative, la cui struttura finanziaria ne sarebbe appesantita. I secondi escludono la fusione, ma la loro natura di operatori di private equity insospettisce quanti vedono soprattutto un intento velocemente speculativo nelle loro mosse. Qualcuno favoleggia addirittura di un ruolo di Generali nella partita accanto a Palladio/Sator e contro Mediobanca. Ambedue i gruppi chiedono a Consob di essere esentati dall’Opa: stanno salvando Fonsai. Strano salvataggio, in cui i soccorritori anziché cedere volentieri agli altri il rischio e lo sforzo, si contendono il misero naufrago. Bisognerebbe ripartire dal bottone giusto.
Purtroppo chi ha in mano il pallino – Isvap e Mediobanca – ha troppo potere, o molto da spiegare, e pensa a questo più che all’ordinato svolgimento di un’operazione rispettosa delle norme civili, penali e di mercato. Mediobanca ha da sempre troppo potere sulle assicurazioni; è il primo azionista di Generali, esercitava influenza su Fiat e quindi su Toro, confluita in Generali. Altrettanto faceva con Fondiaria nell’orbita fiorentina, così continua ora con i Ligresti, e domani con Unipol di cui per di più Mediobanca è anche creditrice subordinata (300 milioni).
Questo groviglio laoocontesco va sciolto, non deve bastare il pannicello caldo di qualche cessione alla Cattolica o ad Axa. Spetterebbe all’ Antitrust uno sforzo di cui, purtroppo, non pare all’altezza. Dulcis in fundo, l’Isvap che ha tollerato 10 anni di malversazioni ora dovrà autorizzare un’operazione che lo mette per sempre al riparo delle sue pregresse pigrizie: quasi un condono. È troppo chiedere, a un governo di competenti senza conti da pagare, una calda opera di persuasione presso il suo vertice, per indurlo a lasciare il campo? Non parliamo del passato: dopo 10 anni, fosse pure stato un grande presidente, sarebbe anche ora.
Autore: Salvatore Bragantini – Corriere della Sera (Articolo originale)