Il gruppo Ligresti non ha mai brillato per la buona corporate governance. Nel corso degli anni avevo criticato i compensi astronomici pagati agli amministratori di famiglia con procedure poco trasparenti, le operazioni tra parti correlate a condizioni non molto vantaggiose per gli azionisti di minoranza, e la scarsa indipendenza degli esperti chiamati a validare la congruità di queste operazioni.
Ma la realtà che emerge dalla relazione dei sindaci di Fonsai è al di là di ogni mia previsione. Nel gruppo di Ligresti le operazioni con parti correlate erano un vero modello di business. Queste operazioni sono estremamente delicate perché creano una divergenza tra l’interesse della società e quello dell’azionista di maggioranza. Se una società controllata al 50% da un gruppo compra una partecipata da un’altra società controllata al 100% dallo stesso gruppo, la normale coincidenza di interessi tra l’azionista di controllo e gli altri soci viene a mancare. Se la partecipata viene valutata un euro di più gli azionisti di minoranza nel loro complesso perdono 50 centesimi, mentre quello di controllo guadagna 50 centesimi (risultato netto derivante da una perdita di 50 come compratore e un guadagno di 100 come venditore). Per questo tali operazioni devono essere approvate da un comitato di consiglieri indipendenti non in conflitto di interessi.
Che male c’è – si potrebbe dire – Ligresti era un costruttore e le società del gruppo sfruttavano le sua capacità. Tanto più che questi contratti venivano fatti a norma di legge, con tanto di opinioni di esperti. Peccato che il talento di Ligresti veniva già ampiamente retribuito con contratti di consulenza, che nel corso di sette anni sono ammontati a 40 milioni di euro. E che i contratti inizialmente stipulati venivano poi modificati in corso d’opera, a condizioni più vantaggiose per i Ligresti.
Dal punto di vista sostanziale, basterebbe una semplice analisi statistica per testare la buona fede di queste operazioni. Data la loro frequenza, possiamo usare la statistica per eliminare gli errori causali. Se tutte queste transazioni risultano in una perdita per gli azionisti di minoranza, possibile che sia un caso? Ovviamente la lista di operazioni analizzate dai sindaci è sbilanciata a favore di quelle che si sono rilevate poco fortunate, perché l’indagine è stata sollecitata da un fondo preoccupato dai potenziali danni subiti. Ma sono sicuro che Premafin sarà in grado di offrire una lista altrettanto nutrita di operazioni con parte correlate che si sono rivelate vantaggiose per gli azionisti di minoranza.
Senza questa lista, sarebbe difficile sostenere che queste operazioni sono state fatte nell’interesse degli azionisti delle società del gruppo. E qualche interrogativo avrebbero dovuto porselo anche gli amministratori indipendenti, che hanno regolarmente approvato tutte queste operazioni.
Forse questo ragionamento statistico è troppo sofisticato per i legulei italiani, più interessati alla forma che alla sostanza. In questo caso, però – a quanto riporta la relazione del collegio sindacale – anche la forma è stata violata numerose volte. Pur non essendo un giurista mi sento ragionevolmente sicuro che in caso di fallimento di Premafin o Fonsai potrebbe essere ragionevolmente avviata una azione di responsabilità nei confronti degli amministratori. Anche senza fallimento, un potenziale nuovo azionista di Premafin e Fonsai potrebbe metterci altrettanto poco ad iniziare un azione di responsabilità nei confronti degli amministratori. Anche se molti legulei nostrani, molto accorti a non inimicarsi i potenti, si affrettano a dire che non ci sono precedenti per tale azione – ed è certamente possibile – c’è sempre una prima volta. E se non ora, quando?
I consiglieri di Fonsai e Premafin, quindi, corrono dei rischi. Per questo l’offerta di manleva effettuata da Unipol deve destare preoccupazione. Unipol offre ai consiglieri di amministrazione di Premafin, Fonsai e La Milano l’assicurazione scritta che non procederà contro di loro. Questa assicurazione crea un conflitto di interesse tra codesti amministratori e i loro soci, non dissimile dalle operazioni con parti correlate. Immaginiamo che rifiutando l’incorporazione con Premafin e la fusione con Unipol il titolo Fonsai valga 100, mentre accettandolo valga 50. Un amministratore che agisce nell’interesse dei soci (come ogni amministratore dovrebbe agire) dovrebbe rifiutare la fusione. Ma nel primo caso rischia una causa che può intaccare il suo personale patrimonio, mentre nel secondo no. Cosa sceglierà?
Di nuovo non sono un legale, ma dal punto di vista economico non ci sono dubbi che l’offerta Unipol pone tutti gli amministratori già presenti nei tre consigli in conflitto di interesse. Gli unici a non trovarsi in questa situazione sarebbero Salvatore Bragantini, ex commissario Consob, e Marco Reboa. A loro spetta non solo la difesa degli azionisti di minoranza Fonsai, ma – ancora più importante – quella dell’immagine della Borsa Italiana nel mondo. Se Ligresti fa scuola, chi mai investirà in Italia?
Autore: Luigi Zingales – Il Sole 24 Ore (Articolo originale)