Opinione della Settimana

«Salvataggio Aig, missione compiuta»

Dalla crisi dei subprime, che hanno portato il gruppo assicurativo americano Aig a un passo dalla bancarotta, Robert Benmosche (nella foto), 68 anni, ha imparato due lezioni. «La prima è che non si dovrebbe mai essere in un business se non si ha una buona leadership societaria. La seconda è che bisogna avere un risk management molto forte, soprattutto quando si trattano attività sofisticate. È importante capire quando staccare la spina e poi farlo rapidamente, appena sorgono problemi. Ed è qui che entra in gioco la leadership. Aig avrebbe dovuto uscire da quei business rischiosi molto prima. Sono sicuro che se Greenberg fosse stato ancora in azienda non saremmo arrivati dove siamo arrivati». Hank Greenberg, storico presidente e ceo di Aig, «avrebbe fermato la crescita pur di tagliare quelle attività ad alto rischio», spiega il manager americano, richiamato dalla pensione nell’agosto 2009 per gestire la società dopo il salvataggio pubblico da 182,3 miliardi di dollari. Il più grande della storia americana: 68 miliardi dal Tesoro e 114 miliardi, in parte sotto forma di prestiti, dalla Federal Reserve.

Prima della crisi Aig era la maggiore assicurazione del mondo. Dove è oggi? 
«Quando sono arrivato, tutti mi dicevano che Aig era finita. Il marchio era su tutta la stampa. C’era il panico dentro e fuori la società. Ci è stato detto che il cambio del nome sarebbe stato positivo. Così la divisione specializzata in proprietà e infortuni nel 2009 ha assunto il nuovo marchio Chartis, e Aig è rimasta solo a livello di holding. Oggi il risanamento è quasi completato. Aig ha 100 miliardi di dollari di patrimonio netto ed è il numero due al mondo per capitalizzazione di mercato, secondi solo a China Life. Abbiamo ripagato il debito con i contribuenti americani, la vera svolta per la nostra reputazione. Il Tesoro Usa, che era salito al 92% del capitale, oggi è sceso al 61%, con profitto. Penso che uscirà dal capitale al massimo entro un anno e mezzo, forse prima. Noi lo stiamo aiutando ricomprandoci parte delle nostre azioni. Ed entro fine anno decideremo se recuperare il vecchio nome: ce lo chiedono i nostri clienti».

Rispetto al 2008 come sono cambiati strategia, asset allocation e risk management di Aig?
«Abbiamo un approccio totalmente nuovo verso il risk management. Ci ha aiutato Peter Hancock, uno dei creatori dei Cds durante il suo ventennio passato a JPMorgan, chiamato a guidare il comitato di risk management. Oggi c’è un altro responsabile e Hancock è diventato ceo di Chartis, la divisione per casa e infortuni. Una delle novità? Al comitato di risk management partecipano tutti i manager più importanti della compagnia, il chief financial officer, il tesoriere, perfino io, mentre di solito il ceo non ne fa parte».

Come funziona?
«Valutiamo i possibili rischi che possono influire sulla compagnia, ad esempio rischi legati agli spread sul credito, ai mercati azionari, alla Grecia, all’euro, all’eventualità di un altro tsunami o di un uragano tipo Katrina, e così via. Come? Applichiamo gli stress test che la Fed ha previsto per le banche. Ci chiediamo cioè quale sarebbe l’impatto sulla nostra liquidità e che conseguenze avrebbe sulla nostra società il verificarsi di un certo evento».

Che impatto avrebbe un break-up dell’euro su Aig? 
«Piccolo. Non abbiamo investito pesantemente nel debito sovrano. E in Grecia abbiamo un’attività esigua. Sarebbe un problema se fossimo una banca. O se fossimo un’assicurazione vita, ma non è il nostro business in Europa. O, ancora, se avessimo in portafoglio molte promesse di lungo periodo e ci fosse il rischio di una conversione delle nostre passività, ma non è questo il caso».

Quali sono gli asset su cui punta Aig dunque?
«Titoli del Tesoro Usa; corporate bond americani, ma anche alcuni bond di società in giro per il mondo; bond municipali Usa; mutui residenziali garantiti. E stiamo tornando anche nel business dei subprime. Abbiamo riacquistato circa 3 miliardi di asset trasferiti dalla Fed nel veicolo chiamato Maiden Lane 2, che ci aveva causato perdite per 22 miliardi di dollari: in verità eravamo pronti a ricomprarlo tutto per 15,7 miliardi, ma la Fed ha detto di no. E abbiamo ricomprato circa 600 milioni di asset da Maiden Lane 3, che vale 4,5 miliardi».

Sta dicendo che gli «asset tossici» alla fine potrebbero rivelarsi un buon affare?
«Si, se si ha la forza di tenere questi asset finché ripartono l’economia e il mercato immobiliare. Le banche li stanno vendendo perché devono liberare capitale per rispettare le regole di Basilea3, ma in questo modo rinunciano a profitti futuri».

A proposito di mercato immobiliare: è finita la crisi della casa in Usa?
«Credo che abbiamo toccato il fondo, ma non penso che i prezzi ripartiranno. La bolla immobiliare non è stata creata dai bassi tassi di interesse, ma da mutui che non stavano in piedi. Oggi compra una casa solo chi può permetterselo. Non era così 4 anni fa. E infatti i nostri problemi sono derivati dai prestiti erogati nel 2006, 2007 e 2008».

Come ha fatto Aig a rinascere?
«La holding aveva un problema, ma le compagnie di assicurazione erano in buona salute. Abbiamo rafforzato l’attività internazionale su proprietà e infortuni. Abbiamo ripagato il prestito del Tesoro Usa, con la cessione di alcuni asset, ad esempio, vendendo la compagnia vita Alico. Abbiamo tagliato i costi operativi, con una revisione completa della struttura dei costi. Abbiamo ridotto i rischi eccessivi, abbassando l’esposizione a certi prodotti finanziari e all’attività di trading dei derivati. Oggi abbiamo solide fondamenta».

Lei è stato chiamato alla guida di Aig nell’agosto 2009, quando era già in pensione da 3 anni. Ora ha 68 anni: fino a che età intende lavorare?
«Fino a quando me lo chiederanno e finché la salute me lo permetterà. L’aspettativa di vita è molto cresciuta e gli Stati Uniti come l’Europa non possono più permettersi di pagare certi benefici. Ma è un tema importante anche in altri Paesi: in Cina intorno al 2050 la metà della popolazione avrà 65 anni. La gente dovrà accettare di lavorare fino a 70-80 anni. È inevitabile. Questo aiuterebbe ad aggiustare anche i deficit pubblici. Il 20° secolo è stato quello della tecnologia. Credo che il trend principale del 21° secolo sarà l’invecchiamento della popolazione».

Autore: Giuliana Ferraino – Corriere della Sera (Articolo originale)

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