Domenico Petrone, pugliese trapiantato a Torino, ha creato Viasat dal nulla. O meglio, partendo da un diploma per corrispondenza
Un po’ sognatore e un po’ navigatore, due delle più classiche virtù tricolori. Così si autodefinisce Domenico Petrone (nella foto), pugliese, classe 1950, patron della torinese Elem e successivamente di Viasat, gruppo da 40 milioni di euro di fatturato in buona parte sviluppato in Italia. Una realtà con oltre 300 dipendenti e oltre 300 mila clienti. Da sempre il suo motto è “know more, do more, be more” (conosci di più, fai di più, sii di più), un inno al sacro fuoco della curiosità che può spingere chiunque di noi a imparare cose nuove e farle bene. Tante le passioni, a partire dall’elettronica. Ma anche il tennis, la musica, il ballo, gli orologi e, soprattutto, il mare come «esperienza formativa e scuola di vita».
All’età di sette anni raggiunge con la famiglia Torino, dove il padre, artigiano-scultore ebanista, si è trasferito qualche tempo prima per lavorare come falegname in un mobilificio e, alcuni anni dopo, prendere in gestione una stazione di servizio. Nel frattempo, Petrone frequenta la scuola dell’obbligo e studia per corrispondenza alla mitica Scuola Radio Elettra di Torino, dove consegue il diploma ancor prima di riuscire a prendere la licenza elementare. Con un po’ di fatica riesce anche a prendere il diploma alle serali come perito elettrotecnico.
Nel 1973 getta le basi di quella che diventerà la Elem, azienda specializzata nell’assemblaggio e fornitura di schede elettroniche per conto terzi. Nel 2002 rileva la Viasat di Roma, dando vita all’attuale Viasat Group. Dieci anni dopo, gli viene conferito il Premio Ernst & Young ‘Imprenditore dell’Anno’ per la categoria Technology and Innovation.
Da ragazzino si divertiva a suonare il sax e montare radio a valvole, oggi è un imprenditore tutto d’un pezzo. Come è avvenuta questa trasformazione?
A scuola ero una frana. Non avevo voglia di studiare, ma l’elettronica mi appassionava, come la musica. Da ragazzino era un litigio continuo con mio padre perché, invece di andare a lavorare, preferivo suonare con la mia rock-band ‘gli Innominati’. Capelli lunghi e sax al collo. Erano i tempi dei Beatles e dei Rolling Stones, cercavamo di imitarli. Poi, ho iniziato a frequentare la ragazza che sarebbe diventata mia moglie. Aveva quindici anni. Nel 1973 è successo di tutto e la mia vita è cambiata all’improvviso. Giovanna, la mia futura moglie e madre dei miei figli, è rimasta incinta e abbiamo deciso di sposarci senza dire niente ai nostri genitori. Dopo qualche mese, a marzo del 1974, è nata mia figlia Barbara. Marco è arrivato tre anni dopo. Nel frattempo avevo iniziato a lavorare alla Fase, azienda del gruppo Comau-Fiat. A quei tempi, secondo il mio datore di lavoro l’elettronica nell’industria non sarebbe mai entrata: «Coi relè facciamo tutto!», diceva. Io sto studiando elettronica, gli dico. «Allora ho sbagliato tutto». E mi dice che posso fare quello che voglio, ma a casa mia. Così, ho dato vita alla Elem, in un garage dove abbiamo cominciato ad assemblare le prime schede elettroniche.
Un inizio alla Steve Jobs, per così dire…
Jobs ha avuto la fortuna di nascere in America. Da noi queste cose non sono mai state valorizzate. Comunque, il mio modello non è Jobs, ma Adriano Olivetti, un imprenditore illuminato che condusse la sua azienda a grandi successi. Olivetti è stato anche il mio primo cliente. Per l’azienda di Ivrea siamo arrivati a produrre mezzo milione di pezzi, tra fotocopiatrici, stampanti e motherboard. Da umili subfornitori, abbiamo sviluppato una grande esperienza nella gestione dei processi produttivi che si è rivelata fondamentale in tutte le operazioni che abbiamo condotto in seguito. Personalmente e da imprenditore, considero Adriano Olivetti un riferimento straordinario che ha segnato positivamente la storia industriale piemontese e italiana. Adriano è stato un esempio che ha fatto scuola nel mondo industriale e pochi come lui hanno creato cultura e valori etici, oltre che prodotti innovativi e ricchezza diffusa, creando una grande ‘famiglia integrata’.
E dalla Olivetti come è arrivato a Viasat?
È stato un processo evolutivo. Quando l’Olivetti ha chiuso, siamo stati costretti a trovarci un nuovo committente. Abbiamo iniziato a lavorare per la Ibm e producevamo i pos, le macchinette per pagare col bancomat, che sono stati i primi prodotti telematici che trasmettevano dati sensibili legati alle transazioni di pagamento. È stata l’occasione per imparare cose nuove. Poi, anche l’Ibm ha chiuso quel business in Italia e così abbiamo iniziato a lavorare per la svedese Ericsson. Tutte attività che ci hanno permesso di acquisire nuove conoscenze sulle diverse tecnologie elettroniche, fino ad arrivare a integrarle in un unico oggetto.
Siete stati i primi in Europa a produrre il navigatore satellitare, già negli anni ‘90, vero?
Vero. Per trent’anni avevamo prodotto per conto terzi, perfezionandoci nella gestione dei processi di produzione più che sul singolo prodotto. Così, oltre a produrre per gli altri, abbiamo cominciato a progettare e abbiamo realizzato il primo navigatore. Integrava tre tecnologie: il gps per trovare la posizione, il gsm per trasmettere sulle frequenze dei telefonini e il computer. Un navigatore interattivo che aveva il suo cuore nella centrale e non sull’apparato. Abbiamo cercato di venderlo a Viasat che era un signor cliente, ma non ci siamo mai riusciti. Allora Viasat era una joint-venture tra Fiat-Magneti Marelli e Seat Pagine Gialle-Telecom Italia. Aveva in pancia un’idea geniale, quella del primo antifurto satellitare, solo che perdeva un milione di euro al mese. Così, nel 2002, la mia piccola Elem Group si è comprata il colosso.
Successivamente avete acquisito la Movitrack (2004) e la Redco Infomobility (2007), senza dimenticare la partecipazione del 5% nella israeliana Pointer Telelocation, quotata al Nasdaq. Qual è la strategia a medio termine?
Abbiamo voluto rafforzare la nostra leadership nel settore, perseguendo nell’ultimo decennio una strategia di crescita per linee esterne. Di questo si occupa mio figlio Marco che è a capo della Ba.Ma., la nostra holding di famiglia, e ha fondato, insieme a Giovanni Panigada, la Nash Advisory che porta avanti questa strategia in simbiosi con Viasat Group. In sostanza, mentre all’interno lo sviluppo dell’azienda è affidato ancora al sottoscritto e al management, la crescita per linee esterne è in mano a Marco e alla sua Nash Advisory che fa scouting per possibili acquisizioni strategiche. L’ultima operazione che abbiamo concluso è stata la costituzione di Viasat Servicios Telemáticos in Spagna, partecipata da Zenithal (37%), un investitore operativo spagnolo.
È stato sempre suo figlio a occuparsi della quotazione, che poi avete deciso di sospendere?
Esattamente. Dopo la laurea in giurisprudenza, Marco è entrato in azienda facendo tutta la gavetta, dal magazzino sino alla direzione, in un’ottica di cambio generazionale. Nel 2007 si è occupato appunto del progetto di quotazione del gruppo Viasat, curando i contatti con il mondo finanziario. Abbiamo poi dovuto sospendere la quotazione, perché non era il momento giusto, ma resta comunque il nostro obiettivo finale. Non a caso abbiamo deciso di passare da una struttura verticalizzata sull’imprenditore a una struttura verticalizzata sul management. Questo è un passaggio chiarissimo. I tempi della quotazione non sono determinabili in questo momento, dipendono dal mercato, ma siamo decisi a realizzarla non appena le condizioni saranno favorevoli. Magari potremo acquisire un’azienda già quotata, come abbiamo fatto con la partecipazione in Pointer.
Il suo decalogo attuativo per la scatola nera ha scatenato un putiferio, soprattutto nel mondo assicurativo che probabilmente lo ha vissuto come un’ingerenza indebita. Se lo aspettava?
Assolutamente no. Il mio voleva essere un contributo per una maggiore chiarezza, ma sono stato frainteso. Secondo qualcuno, non mi dovevo permettere di dare consigli. In ogni caso hanno voluto ascoltarmi in Senato su questo tema e ho partecipato a un tavolo tecnico insieme ai maggiori telematics service providers nazionali. Abbiamo dato vita alla Telematics Service Providers Association, di cui mio figlio Marco è presidente, che mette insieme gli operatori più importanti e che si pone l’obiettivo di definire gli standard della tecnologia nazionale e, speriamo, europea.
Il prossimo anno festeggerà i 40 anni della sua azienda. Qual è la sua più grande soddisfazione da imprenditore italiano?
Siamo la prova vivente che l’elettronica in Italia si può fare, a condizione di produrre alta tecnologia e di saperlo fare. Lo stesso vale per la telematica associata ai servizi di protezione e sicurezza delle vetture, logistica e gestione delle flotte di mezzi pesanti utilizzando le tecnologie satellitari. Mi sono sempre battuto e mi batto ancora per difendere il made in Italy, perché intelligenza e capacità per produrre in Italia ci sono.
Autore: Francesco Signor – Espansione On Line (Articolo originale)