La Commissione europea censura le regole per l’assegno anticipato: gli uomini devono lavorare un anno in più. Dai sindacati «no» a riforme peggiorative
I requisiti richiesti a uomini e donne per l’accesso alla pensione devono essere uguali. Sulla base di questo principio, ieri la Commissione europea (nella foto, Palazzo Berlaymont a Bruxelles) ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. La norma contestata è quella contenuta nella legge 214/2011 (conversione del Dl 201/2011) che prevede 41 anni e 3 mesi per le donne e 42 anni e 3 mesi di contributi agli uomini per accedere alla pensione anticipata.
Secondo le prime indicazioni arrivate dalla Commissione europea la legge è in contrasto con l’articolo 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che stabilisce la parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda la retribuzione. Per il momento Bruxelles si è limitata al primo passo della procedura, che consiste nella messa in mora dell’Italia, a cui seguirà l’invio di una lettera al governo contenente il dettaglio dei punti contestati e la richiesta di spiegazioni. E da tale documento si dovrebbe capire quali sono gli elementi specifici ritenuti non coerenti con il Trattato che non fa riferimento diretto alle pensioni ma alla retribuzione.
Purtroppo non è la prima volta che il nostro Paese finisce nel mirino della Commissione europea in materia di requisiti per l’accesso alla pensione. Nel 2008 l’Italia è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Ue per i differenti requisiti applicati ai dipendenti pubblici: l’accesso alla pensione di vecchiaia era consentito a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini. In tale occasione la Corte aveva fatto riferimento a quello che allora era l’articolo 141 del Trattato, in base al quale è vietata qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile. La pensione in tal caso venne equiparata alla retribuzione.
La previsione di un’età differente per il pensionamento era in contrasto con tale principio e, argomentava la Corte, i governi nazionali devono contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo, ponendo rimedio ai problemi che possono incontrare durante la carriera professionale.
Per non incorrere in una procedura d’infrazione con relativa condanna e sanzione economica, il Governo italiano nel 2010 innalzò i requisiti per il pensionamento delle dipendenti del settore pubblico, portandolo a 65 anni. Ora potrebbe accadere la stessa cosa, un’eventualità che la Cgil non auspica. «Ci auguriamo – ha dichiarato la segretaria nazionale Vera Lamonica commentando la decisione della Commissione – che non si voglia ripetere la vecchia esperienza, con ulteriore penalizzazione delle donne, e che anzi l’occasione venga colta per intervenire su uno dei punti più delicati ed iniqui della riforma Fornero, abbassando per gli uomini l’età di accesso e favorendo per le donne la valorizzazione contributiva per i periodi di lavoro di cura».
Contrario all’interpretazione della Commissione europea il segretario confederale della Cisl, Maurizio Petriccioli: «La diversità di requisiti contributivi richiesti a uomini e donne per arrivare ad ottenere la pensione anticipata introdotta dalla riforma Fornero non può essere considerata una discriminazione. Il ministro del Lavoro deve fornire alla Commissione i chiarimenti necessari per scongiurare il rischio di nuovi interventi peggiorativi sui trattamenti pensionistici sui quali è necessario intervenire per reintrodurre meccanismi di flessibilità al fine di restituire alle persone il diritto di decidere quando andare in pensione».
Autore: Matteo Prioschi – Il Sole 24 Ore