Gli effetti della rivalutazione del montante in base al ciclo economico. Con l’economia ferma la rendita di un trentenne sarà pari a metà stipendio. Ma con una crescita del 2 per cento la copertura può salire di 20 punti
La brusca frenata dell’Azienda Italia blocca la crescita dei contributi dai quali otterremo le nostre pensioni. La rendita non riesce a star dietro all’inflazione, con una perdita secca in termini di potere d’acquisto. E la coperta rischia di essere sempre più corta. Il collegamento tra rivalutazione dei contributi accantonati e la crescita del Pil — che ultimamente invece di salire scende o al massimo resta fermo — è uno dei meccanismi meno evidenti della macchina previdenziale. Eppure va tenuto d’occhio e pesato con attenzione. Vediamo perché.
Esempio
Prendiamo un dipendente trentenne che andrà in pensione a 67 anni e un mese. Il rapporto fra la sua pensione e la sua ultima retribuzione può arrivare al 71% se il Pil cresce del 2% in termini reali, cioè al netto dell’inflazione: un’ipotesi che, con l’andamento dell’economia negli ultimi anni, appare poco probabile. Se il Pil non aumenta (come succede ora) la copertura si riduce al 49%, precipitando del 22%. Anche per un autonomo il divario è pesante: dal 50% se l’economia tira si scende al 35% se, invece, è in recessione.
Ed è quello che avvenuto negli ultimi anni nel nostro paese, come conferma il dato recentemente pubblicato dall’Istat sul Pil nel 2013. Malgrado un primo segnale di ripresa nell’ultimo trimestre (+0,1% rispetto a quello precedente), anche l’anno scorso il Prodotto interno lordo è diminuito, con il -1,9%, che segue il -2,5% del 2012. A partire dal 2000 ci sono stati quattro anni di recessione: 2008, 2009, 2012 e, appunto, 2013.
Che cosa vuol dire per le pensioni? Progetica, società di consulenza in educazione e pianificazione finanziaria, ha provato a fare qualche simulazione. «Insieme all’andamento della speranza di vita e alla dinamica di carriera, nel sistema contributivo la crescita economica rappresenta una delle tre variabili che incidono sul montante e quindi sulla pensione», spiega Andrea Carbone, partner di Progetica. «E il contributivo interessa ormai la stragrande maggioranza dei lavoratori: riguarda in modo integrale o parziale tutti gli iscritti all’Inps, e buona parte di quelli che fanno capo alle altre casse previdenziali». La riforma Dini del 1995 ha stabilito che il montante contributivo (il gruzzolo finale che viene poi convertito nell’assegno pensionistico) viene rivalutato in base alla media del Pil nei cinque anni precedenti. «Questo meccanismo attenua i picchi annuali, ma di fronte al -5,5% del 2009 non c’è media quinquennale che tenga — sottolinea Carbone —. Dunque a partire dalla media del 2010, che si basa sul quinquennio 2005-2009, i contributi vengono rivalutati meno dell’inflazione».
Le simulazioni mostrano cosa succederà se, da oggi al momento del pensionamento, il Pil dovesse continuare ad essere quello di un Italia in crisi. Oppure se si convertirà in uno scenario di crescita moderata e sostenuta, con tassi rispettivamente dello 0, 1% e 2% in termini reali (cioè al netto dell’inflazione). Le conseguenze sul tasso di copertura — il rapporto tra pensione e ultimo reddito — saranno tanto più ampie man mano che diminuisce l’età e ci si allontana dal pensionamento. Così, per esempio, per un dipendente quarantenne si andrà dal 49% al 57% e al 66%: per un cinquantenne dal 65% del primo caso, al 70% del secondo e al 76% del terzo.
Negli esempi l’età di pensionamento dei 30enni e 40enni è inferiore a quella dei 50enni perché, a differenza di questi ultimi, i primi ricadono integralmente nel contributivo. E in questo sistema si può accedere alla pensione con 63 anni (incrementati secondo la speranza di vita), invece dei normali 66 richiesti per il trattamento di vecchiaia. Ma solo se l’assegno pensionistico è superiore a 2,8 volte l’assegno sociale (5.819 euro nel 2014): nelle simulazioni s’ipotizza che entrambi i profili superino questa soglia.
Effetti pesanti
Le simulazioni di Progetica mostrano anche il potenziale impatto sull’assegno pensionistico provato dalla grave recessione del biennio 2008-2009 (-6,7%) e 2012-2013 (-4,4%). E il conto è decisamente pesante: per un dipendente 50enne con un reddito mensile netto di 2mila euro, il taglio rispetto all’assegno che si avrebbe con un’economia che tira è di quasi cento euro al mese. Una differenza che, rapportata all’aspettativa media di vita al pensionamento, determina una riduzione complessiva di quasi 24.900 euro. «Le simulazioni hanno sostituito quei quattro anni di recessione con un Pil positivo del 2%, e lo stesso valore è stato utilizzato per stimare la crescita media futura — spiega Carbone —. Più tempo si ha per recuperare, come nel caso dei giovani, minore sarà il calo potenziale del vitalizio».
Autore: Roberto E. Bagnoli – CorrierEconomia (Articolo originale)