(Autore: Marco Liera – Il Sole 24 Ore)
L’Istat ha certificato in settimana che il Pil italiano non cresce dal secondo trimestre 2011. Tra le spiacevoli conseguenze, si pone il problema della rivalutazione del montante delle pensioni calcolate con il metodo contributivo. Questo tasso è pari alla media della variazione del Pil nel quinquennio precedente. Per il montante accumulato a fine 2012 è stato applicato un tasso dello 0,16%. Quest’anno potrebbe essere la prima volta che la rivalutazione diventa negativa, relativamente al montante contributivo maturato fino a fine 2013. La questione non riguarda solo i lavoratori più giovani, quelli che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995. La riforma Monti-Fornero del 2011 ha previsto l’applicazione del metodo contributivo anche per i lavoratori che hanno cominciato a lavorare prima di quell’anno, relativamente ai contributi versati a partire dal 2012.
In attesa di auspicabili limitazioni alle riduzioni che il montante contributivo potrà subire per la congiuntura negativa, va sottolineato che in termini reali la perdita di potere d’acquisto delle pensioni contributive è già nei fatti perché è dal 2011 che il tasso di rivalutazione è negativo in termini reali, ossia al netto dell’inflazione. Le casse professionali che applicano il metodo contributivo e che investono sui mercati finanziari le risorse degli iscritti, traendone un rendimento superiore alla rivalutazione del Pil, possono trovare una via d’uscita in una recente sentenza del Consiglio di Stato. Il 18 luglio i giudici della VI sezione, chiamati a decidere su un ricorso in appello dell’Enpaia, hanno stabilito che «le leggi stabiliscono un trattamento obbligatorio minimo che va assicurato, ma non vietano che le singole casse possano – senza oneri per lo Stato – prevedere, utilizzando gli utili della gestione, una rivalutazione maggiore che consente di erogare trattamenti pensionistici più alti».