(Autori: Roberta Castellarin e Paola Valentini – Milano Finanza)
In questi anni il Sistema sanitario nazionale è riuscito a contenere la spesa. Ma questo ha avuto un impatto sui servizi erogati. Ora potrebbero arrivare nuovi risparmi. Integrare è sempre più urgente
La proposta del ministro della Salute Beatrice Lorenzin per i nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea, ovvero le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a garantire) è pronta. Ora si apre un tavolo permanente di analisi con le regioni che dovrebbe concludere il suo lavoro entro l’estate. Nei nuovi Lea, da un lato, vengono messe in elenco numerose prestazioni in più nel paniere del Sistema sanitario nazionale, dall’altro si punta molto sulla capacità delle Regioni di riassorbire gran parte di questi costi.
Dopo l’incontro il coordinatore degli assessori regionali alla Sanità, Luca Coletto, ha commentato a caldo: «Secondo me sarà molto difficile poter erogare i nuovi livelli essenziali di assistenza (Lea) se non aumentando ulteriormente le tasse». Di certo il tema è sempre quello di fare quadrare i conti. Un’impresa non facile in un Paese come l’Italia che ha un debito pubblico molto elevato e un crescente problema demografico da affrontare.
D’altronde il tema del contenimento dei costi è stato un leitmotiv negli ultimi anni. Come ha confermato il Rapporto Oasi 2014 del Cergas Bocconi. Si legge nella ricerca: «La spesa del Sistema sanitario nazionale storicamente cresceva in media del 4% all’anno, con un deficit medio del 4%, seppur con rilevanti differenze interregionali. Dal 2009 la spesa pubblica è rimasta sostanzialmente stabile e nel 2013 i dati di preconsuntivo mostrano, per la prima volta dal 1995, una riduzione (-1,2% rispetto al 2012)». Il Rapporto ricorda che la diminuzione della spesa si associa alla diminuzione del pil (-0,4% rispetto al 2012), ma è più accentuata, sicché il peso della spesa sanitaria pubblica corrente sul pil diminuisce nel 2013, passando dal 7,3% del 2012 al 7,2%. Anche il disavanzo sanitario si è significativamente ridotto e si attesta, ormai dal 2011, a 1-1,5 miliardi di euro, quindi intorno all’1% della spesa corrente. I dati riportati nel Rapporto, anzi, mostrano un avanzo di 518 milioni di euro nel 2012 e 811 milioni nel 2013, ma solo per effetto di una nuova e particolare modalità utilizzata in sede ministeriale per la contabilizzazione degli introiti fiscali regionali destinati alla copertura dei disavanzi.
Sottolineano gli esperti del Cergas: «Complessivamente, ciò significa che si è riusciti contemporaneamente a bloccare la fisiologica dinamica espansiva della spesa e a rientrare dai disavanzi abitualmente accumulati, allineandosi alla limitata capacità di spesa dello Stato, generata dalle difficoltà della finanza pubblica e dalla crisi socioeconomica. Questo risultato, inoltre, è stato ottenuto nonostante l’oggettivo peggioramento del quadro epidemiologico, l’aumento delle forme di deprivazione socio-economica e la crescita tecnologica, determinanti che vengono sempre citate per spiegare l’ineluttabile aumento della spesa sanitaria».
Per ottenere questo risultato si sono tagliati i costi alla fonte, per esempio gli stipendi dei dipendenti pubblici sono fermi da cinque anni, così come si è agito in un risparmio negli acquisti di farmaci e dispositivi medici. Si è chiesto poi a parità di costo di aumentare la produttività o i servizi offerti. E infine «la terza tipologia di interventi ha accettato, anche se non sempre in modo esplicito, di agire direttamente sul contenimento degli output, cioè dei volumi di prestazioni da erogare, attraverso forme di governo degli accessi, quali, ad esempio, le liste d’attesa o i tetti sui volumi di prestazioni erogabili».
Certo questi interventi, efficaci in termini di contenimento della spesa pubblica, hanno però un impatto sui servizi dato ai cittadini. Come sottolinea lo studio: «La neutralità di queste azioni rispetto alla capacità del sistema di rispondere ai bisogni di salute della popolazione non può essere data per scontata. L’efficacia rimane costante solo se la riduzione riguarda le prestazioni inappropriate e le forme di consumismo sanitario. Altrimenti, la riduzione dei volumi di prestazioni nell’area ambulatoriale, farmaceutica e ospedaliera che si sta rilevando negli ultimi anni rischia di tradursi in una riduzione del tasso di copertura pubblica dei bisogni sanitari in alcuni ambiti di cura e, in maniera più accentuata, in alcune parti del Paese».
La ricerca del Cergas aggiunge che permangono le tradizionali aree di sofferenza rispetto alle prevalenze epidemiologiche in odontoiatria (5% di copertura da parte del Ssn) e nella non autosufficienza (25% il massimo di presa in carico pubblica nelle regioni più ricche), oltre a una generale debolezza dell’offerta in psichiatria e nelle dipendenze. In più, rischiano di diminuire ulteriormente i tassi di copertura nell’ambito delle prestazioni ambulatoriali, con un generale allungamento delle liste di attesa anche nei ricoveri programmati.
Una situazione che spinge molti a rivolgersi alla sanità privata. Secondo le stime che emergono dal documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla sostenibilità economica del Ssn, condotta dalle commissioni Bilancio e Affari Sociali della Camera, la spesa sanitaria privata è arrivata a 30,3 miliardi, tra farmaceutica, diagnostica e assistenza, che costituiscono «una percentuale rilevante della spesa sanitaria complessiva», si legge nel documento. Una spesa ingente che «pur non collocandosi su un livello non dissimile da quella di altri Paesi europei, è nel nostro Paese quasi per intero out of pocket (ovvero sostenuta direttamente dal cittadino, ndr), mentre altrove è in buona parte intermediata da assicurazioni e fondi».
Proprio per questa ragione l’assistenza sanitaria integrativa oggi potrebbe giocare quel ruolo di supporto al Sistema sanitario nazionale per cui è nata. Una conferma è arrivata anche dalla ricerca effettuata da Eurisko per Assidim (associazione senza fini di lucro costituita per promuovere, coordinare e prestare coperture sanitarie integrative). Gli italiani sono ormai sicuri: l’assistenza sanitaria integrativa è il benefit più importante che si può ricevere dalla propria azienda (42%), superiore ai buoni spesa (29%), all’auto (14%), agli asili nido o alle convenzioni con esercizi commerciali (6%). Certamente però la situazione non è tutta rose e fiori. Se è vero che il 74% dei lavoratori conosce benefici e vantaggi di un’assistenza integrativa e vorrebbe adottare i servizi ad essa connessi, resta basso il numero dei lavoratori che ne beneficiano. Solo il 17% dei lavoratori infatti ha una copertura integrativa.
Nonostante la crisi economica, il 33% degli italiani crede nella garanzia del diritto alla cura: il 10% in più rispetto al 2013. Anche la conoscenza delle modalità di erogazione dei servizi è particolarmente bassa: ad esempio, il 47% degli intervistati non sa che la copertura integrativa può essere sottoscritta dall’azienda, nonostante la maggior parte degli intervistati la conoscano. «In questo
senso l’assistenza integrativa può giocare pienamente il ruolo di supporto al Sistema sanitario nazionale», spiega Assidim. Il Ssn, infatti, non viene bocciato in toto dagli italiani: il 44% del campione considera buona la qualità dei servizi. I motivi di insoddisfazione del 56% degli intervistati sono le code e l’attesa (86%), la qualità delle prestazioni (30%) e la professionalità degli operatori (20%).
Per quanto riguarda i servizi sanitari privati, il 55% della popolazione ne ha usufruito nell’ultimo anno: il 31% per uno specifico problema mentre il 24% lo utilizza per prevenzione. «Oggi gli italiani danno priorità alla salute e l’assistenza sanitaria integrativa è il pilastro su cui fondare il futuro», dice Bruno Soresina, presidente Assidim, «esso permette a ogni singolo di scegliere la modalità di assistenza, attraverso ottime prestazioni e vantaggi fiscali. Infine, a livello aziendale, i lavoratori vorrebbero l’assistenza sanitaria integrativa come benefit e lo apprezzerebbero rispetto a tutti gli altri».
Eppure nonostante la crescente consapevolezza le polizze sanitarie in Italia fanno fatica a prendere piede, perché costose e perché vengono viste come una pura e semplice replica della sanità pubblica. D’altra parte qualche difetto ce l’hanno ancora perché non sempre sono complementari rispetto a quanto offerto dal Sistema sanitario nazionale.
Ma qualcosa inizia a muoversi dal lato dell’offerta. Unipol Banca, per far fronte alle esigenze delle famiglie che con la crisi rinunciano alla cura e alla prevenzione sanitaria, mette a disposizione dei propri clienti un piano sanitario gratuito che rimborsa i ticket per le prestazioni di alta specializzazione, permette di usufruire di tariffe agevolate per risparmiare sul costo delle prestazioni e fornisce servizi di prevenzione, assistenza e consulenza medica.
L’offerta, predisposta congiuntamente a UniSalute, società del gruppo Unipol specializzata in assistenza sanitaria, prevede due diversi piani sanitari gratuiti, rinnovati automaticamente di anno in anno a costo zero e abbinati a due tipologie di conto corrente della linea Valore Comune: conto Valore Plus, che ha un canone mensile di 5 euro, e conto Valore Extra, il cui canone mensile è pari a 10 euro. I piani permettono di ottenere il rimborso integrale del ticket per le prestazioni sanitarie che incidono di più sul bilancio familiare. Il servizio permette di accedere a un network di strutture convenzionate UniSalute per effettuare visite specialistiche, altri accertamenti diagnostici e trattamenti fisioterapici in tempi rapidi risparmiando sul costo delle prestazioni extraricovero, fissando un appuntamento tramite il sito o l’app di UniSalute 24 ore su 24. I Piani sanitari sono attivabili da ogni intestatario del conto corrente, di età non superiore ai 75 anni.