(di Alessandro Bugli – Il Punto, Giornata Nazionale della Previdenza e del Lavoro)
Quanto spendiamo per welfare complementare? O, meglio, quanto spendiamo privatamente per assistenza sanitaria e per disabilità e per pensioni complementari?
Si sente spesso dire che gli italiani saranno chiamati in futuro a sopportare pesanti costi per cure sanitarie, assistenza e per integrare la propria pensione. Questa affermazione, purtroppo, sconta un difetto in termini di correttezza: gli italiani sopportano già OGGI un importantissimo carico di spese per accedere a forme di welfare complementare, volente o nolente.
Lo Stato (cioè, tutti noi) spendiamo 433 miliardi per welfare pubblico; cioè più di metà della spesa pubblica complessiva.
Dato l’intervento pubblico, cosa resta ai privati? Itinerari Previdenziali stima che per l’anno passato (2014) la spesa sostenuta dagli abitanti del bel Paese per garantirsi prestazioni di welfare non coperte dal pubblico sia stata pari a 59.1 miliardi di euro.
Cosa rientra in queste spese e per cosa spendiamo di più?
La voce certamente più importante è quella per sanità; voce per cui gli italiani e i domiciliati sul territorio spendono circa 34 miliardi di euro (560 euro a testa, anziani e neonati compresi). Di questi solo, circa, 4 miliardi sono intermediati da centrali di spese qualificate (fondi, casse, mutue e compagnie di assicurazioni). I restanti 30 miliardi sono pagati direttamente, out of pocket, sull’unghia, da singoli e famiglie, con colpi notevoli (a volte da KO) per l’economia domestica.
Al netto dei ragionamenti di natura macroeconomica sugli effetti virtuosi o meno di un sistema sanitario multipilastro, non v’è dubbio che l’intervento di un intermediario di spesa (sia esso un fondo, una cassa, una mutua o, anche, una compagnia di assicurazioni) consente di ridurre i costi da sostenere per assistenza sanitaria, di diluirli nel tempo e di garantirsi, pagando preventivamente un contributo fisso e predeterminato, non trovandosi – al tempo del bisogno – in balia dei fatti, dovendo ridursi ad accettare offerte di prestazioni private nient’affatto qualitativamente apprezzabili, adeguate e convenienti in termini di spesa. Poi, là dove la contrattazione collettiva lo consente, parte del costo è sostenuto dal datore di lavoro per conto dei dipendenti, con ulteriore riduzione dell’impatto economico in termini di spesa per questi ultimi e, eventualmente, per i loro familiari.
Alla spesa sanitaria si aggiungono inoltre altre voci, esempio: 13 miliardi di contribuzione verso i fondi pensione complementari per farsi una pensione di scorta e 9,2 miliardi per assistenza domestica (volgarmente, il costo per badanti) per i nostri cari che versano in stato di parziale o totale non autosufficienza.
Conclusioni
Questo breve intervento, lungi dall’intervenire sull’annoso tema di come lo Stato debba carico delle esigenze dei singoli, soprattutto di coloro che versano in condizioni di disagio – tema che richiederebbe ragionamenti e approfondimenti di più ampio respiro – ha l’unico fine di fotografare un livello di spesa privata, già oggi, elevatissimo.
Il trend di crescita della spesa non sembra conoscere freno da molti anni. Salve rivoluzioni copernicane per il sistema di welfare pubblico – rivoluzioni ragionevolmente da escludersi nel breve/medio periodo, il privato spenderà ancora tanto. Dato il quadro, non essendo qui legislatori, il privato può scegliere se continuare a fare fronte alle esigenze di salute, assistenza e welfare da solo o – come riteniamo più corretto, in linea con quanto accade nelle principali realtà democratiche e economicamente sviluppate -farsi aiutare in tal senso da intermediari di spesa qualificati (fondi, mutue, …), verificando – confrontandole – le soluzioni sanitarie integrative esistenti e scegliendo quella più adeguata alle proprie esigenze.