(di Roberto Sommella – Milano Finanza)
Non esistono pasti gratis, così come non ci sono riforme a costo zero. Soprattutto nel settore della finanza pubblica, dati gli impegni a mantenere l’equilibrio di bilancio. È questo il sentiero stretto per affrontare con serenità e visione il problema sollevato dalla proposta di riforma della previdenza e dell’assistenza avanzata dal presidente dell’Inps Tito Boeri (nella foto). Il tema, enorme, della sostenibilità degli assetti previdenziali in Europa (25% del pil mondiale, ma 50% della spesa planetaria del welfare) in Germania lo stanno già affrontando. Da noi si dibatte.
Dopo il 2020 il 55% della popolazione tedesca avrà 65 anni e nel 2035 l’attuale rapporto di tre lavoratori per ogni pensionato passerà al molto meno agevole due lavoratori per un pensionato. I Lander dovranno effettuare risparmi pari al 3,5% del pil per mantenere il sistema in equilibrio, a meno che non intervengano fattori esterni e si estenda la platea dei contribuenti. Così si spiega la sorprendente (e faticosa) campagna «porte aperte» del governo Merkel verso centinaia di migliaia di profughi, soprattutto siriani: sono già formati, hanno una qualifica, troveranno lavoro e presto pagheranno contributi. In media solo di formazione Berlino risparmierà un miliardo l’anno.
Il nodo per l’Italia è analogo, perché è un Paese spaccato in tre: coloro che già ricevono una pensione (col metodo retributivo, decisamente più vantaggioso per il singolo e più oneroso per lo Stato, o col metodo contributivo-misto che è l’esatto contrario), coloro che la riceveranno in base solo ai versamenti effettivi e coloro che rischiano di non averla per mille motivi. Questi ultimi sono una platea eterogenea, che sulla carta va dai 3 milioni di disoccupati ai 3,6 milioni di non attivi, che presumibilmente non avranno i contributi necessari per accedere all’assegno previdenziale, e in questa categoria rientrano anche i 55enni, troppo giovani per restare a casa ma troppo in là con gli anni per ricollocarsi. La proposta di Boeri, bocciata di fatto dal governo Renzi, cerca di riequilibrare queste diseguaglianze, che con l’andare del tempo, per effetto dell’invecchiamento della popolazione e dell’età necessaria per uscire dal lavoro, rischiano di aumentare. Ma non è detto che non si possa trovare un punto di sintesi. Anzi, è necessario.
L’esecutivo sta operando sul fronte della creazione di lavoro, perché senza questo non c’è crescita (e pensione futura) che tenga. Vanno in questa direzione i provvedimenti sugli 80 euro in busta paga, la decontribuzione dei nuovi assunti e il Jobs Act, che stanno dando i primi frutti in termini di riduzione della disoccupazione e di ripresa economica. Allo stesso tempo è probabile che nel 2017 a Palazzo Chigi si riprenda in mano il tema della flessibilità in uscita, fondamentale per il ricambio che proprio le misure suddette stanno incentivando. Senza lavoratori che vanno anticipatamente in pensione, pagando il dovuto in termini di minor assegno previdenziale, è difficile che i nuovi lavoratori trovino rapidamente un posto, a meno che non si creino milioni di nuovi posti. Sono i due lati di una porta girevole che per forza di cose deve essere tale: si entra più facilmente nell’azienda solo c’è qualcuno che esce e spinge le sliding doors in senso opposto.
Su queste considerazioni è chiaro che pesano come un macigno i costi della riforma Boeri. Il picco massimo in termini di spesa aggiuntiva, nello scenario peggiore in cui si prevede che tutti i possibili aderenti alla flessibilità accettino di utilizzarla, si avrà nel 2019, quando gli oneri per lo Stato saranno di 4,1 miliardi. La differenza tra l’ipotetica pensione con le regole attuali e quella flessibile è compresa tra il 9,4 e l’1,5%. Guardando agli effetti complessivi sulla previdenza, la flessibilità costerà 1,4 miliardi nel 2016, 2,7 miliardi nel 2017, 2,5 nel 2018 fino appunto a raggiungere il top nel 2019. Sono costi affrontabili da un grande Paese come l’Italia, ma solo a patto che si taglino per un pari importo altre spese, senza un euro di tasse in più. È una sfida immensa.
Alla base del piano Boeri c’è l’adeguamento delle pensioni con retributivo e misto così da avvicinarle a quelle con contributi realmente versati. Il ricalcolo interesserà soprattutto chi gode di redditi pensionistici (pensioni o somma di trattamenti) superiori a 5 mila euro. In buona sostanza, chi già prende la pensione ci perderà, a vantaggio di chi rischia di non averla. Su un tema simile in Svizzera indirebbero sicuramente un referendum. Il quesito sarebbe semplice e ricalcherebbe l’obiettivo della mancata riforma del Welfare State del governo D’Alema: volete dare meno ai padri per dare di più ai figli? L’esecutivo attuale ha scelto, con l’abolizione dell’Imu e della Tasi sulla prima casa, di dare intanto un tetto alleggerito dalle tasse ai tanti giovani che ancora cercano lavoro e vivono con i genitori o che hanno difficoltà a comprare un’abitazione. Quindi ha deciso di dare a padri e figli. Sono scelte lecite, di politica economica. Ma il diritto alla pensione che non c’è, come quello al lavoro o alla casa, deve essere tenuto in massima considerazione. In Germania, a modo loro, lo stanno già facendo.