(di Maria Carla De Cesari – Quotidiano Edilizia e Territorio)
Lo Statuto degli autonomi, dopo il primo annuncio di oltre tre mesi fa, è stato approvato dal Consiglio dei ministri. La definizione di Statuto non nasconde un intento classificatorio per i lavoratori autonomi, partite Iva e professionisti iscritti in Ordini. Il provvedimento definisce semplicemente una serie di tutele per collaboratori, partite Iva e professionisti.
Al di là di una precisazione su che cosa si intenda per collaborazione coordinata e continuativa – il dibattito dottrinale se la norma sia in continuità o in contrasto con il decreto legislativo 81/2015, articolo 2, è già iniziato e non è questo il punto che qui si vuole analizzare – il disegno di legge non contiene norme “definitorie”. Prende atto dell’universo del lavoro autonomo, senza voler tracciare confini interni, se si eccettua l’esclusione di artigiani e commercianti. La platea di riferimento, ed è questo uno dei punti più rilevanti, è il mondo professionale, senza badare se ci sia o meno l’iscrizione a un Albo, Ordine, Registro.
Per anni la politica e una parte delle rappresentanze professionali hanno combattuto battaglie su ruolo degli Ordini, fede pubblica, attività riservate, attività connesse e sulla linea di separazione tra chi esercita l’attività in quanto iscritto a un Albo e quanti di questo mondo non fanno parte. Per anni una parte della politica e del mondo professionale hanno anche coltivato il disegno di ricondurre quante più attività possibili in un alveo ordinistico. Un proposito, quest’ultimo, naufragato di fronte ai mille rivoli delle professionalità, sempre più segmentate anche se il bagaglio culturale di partenza è quello tradizionale.
D’altra parte il dibattito sugli Ordini ha lasciato una riforma, tra il 2011 e il 2013, dettata dalla necessità di riconoscere nell’ordinamento il livello della concorrenza e di mettere i clienti-consumatori nella condizione di scegliere il professionista più adeguato, con un “listino prezzi”, si passi l’espressione prosaica e provocatoria. I risultati di questa riforma sono ancora frammentari, come dimostrano le indagini dell’Antitrust soprattutto sui limiti alla pubblicità.
Ebbene, Ddl è sordo rispetto a tutto questo retroterra. La strada imboccata si sottrae a logiche demarcatorie e va nella direzione dei servizi. Di che cosa ha bisogno un professionista per poter prestare i propri servizi? A che cosa ha diritto?
Alla prima categoria di domande cercano di rispondere, per esempio, le norme che ampliano gli sconti fiscali per le spese di formazione, la disciplina contro i ritardi nei pagamenti e le clausole vessatorie (regole, queste ultime, utili in particolare, alle partite Iva e ai collaboratori). Alla seconda categoria vanno ricondotte alcune tutele per gli iscritti alla Gestione separata.
A tutto il lavoro autonomo si riferisce la previsione dell’accesso a regime, senza limiti di programma, ai fondi europei, in quanto i professionisti sono, per la Ue, piccole e medie imprese a prescindere dalla veste giudica con la quale si esercita l’attività. Si tratta, dunque, di un mix di tutele e di diritti, essenziale però per esercitare le professioni, in concorrenza, ma senza subalternità. Probabilmente si tratta di un primo passo, che ha dovuto fare i conti con i limiti del bilancio pubblico. La struttura leggera deve costituire un motivo di sollecitazione al Parlamento a non perdersi nei meandri dei vecchi dibattiti e dei vecchi steccati.