(di Mariano Mangia – Repubblica Affari & Finanza)
L’età nella quale riscuotere si allunga sempre di più e le prospettive non sono buone. L’unica compensazione possibile arriva dalle pensione complementare e da un sistema più semplice
Per molti lavoratori e lavoratrici, la pensione comincia ad apparire come la linea dell’orizzonte, un qualcosa di irraggiungibile. Non è così, ovviamente, ma occorre rassegnarsi all’idea di andare in pensione a un’età più avanzata e di ricevere un assegno pensionistico il cui importo è determinato quasi esclusivamente dalla retribuzione percepita, ovvero dall’ammontare dei contributi versati. L’età pensionabile si allontana perché si allunga la vita media. La speranza di vita alla nascita, che nel 1961 era di 67,2 anni (72,3 per le donne), è pari oggi a poco oltre gli 80 anni per i maschi e sfiora gli 85 anni per le femmine ed è destinata a aumentare ancora, si stima che nel 2050 raggiungerà, rispettivamente, gli 85,3 e i 90,2 anni. Così, se oggi per accedere alla pensione di vecchiaia è richiesta, in aggiunta ad almeno 20 anni di contribuzione, un’età che varia dai 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti private ai 66 anni e 7 mesi per i lavoratori di sesso maschile, già nel 2019, secondo le stime elaborate dalla Ragioneria Generale dello Stato, occorrerà avere un’età di 67 anni, nel 2028 si dovrebbero toccare i 68 anni, il traguardo dei 69 sarà richiesto verosimilmente a partire dal 2037 e dal 2050 la pensione arriverà a 70 anni. Si va più tardi in pensione e, di conseguenza, si allunga il periodo di contribuzione e quindi “cresce” il montante contributivo, l’ammontare dei contributi versati e rivalutati; nel calcolo dell’assegno pensionistico con il sistema contributivo, tuttavia, si tiene conto dell’allungamento dell’età media, riducendo i coefficienti che trasformano questo montante in rendita; quelli entrati in vigore dal primo gennaio e che rimarranno in vigore fino a dicembre 2018, hanno già ridotto la prestazione pensionistica da un minimo dell’1,35% a un massimo del 2,5%.
L’effetto complessivo? Sulla base dei calcoli della Ragioneria generale dello Stato, le prospettive per i lavoratori dipendenti non appaiono poi così nere, in particolare se si valuta, più correttamente, il tasso di sostituzione netto, ossia il rapporto tra pensione e ultima retribuzione calcolato al netto delle imposte, l’incidenza delle trattenute contributive e fiscali che gravano sul reddito è percentualmente superiore a quelle che gravano sulla pensione. In numeri, un lavoratore dipendente, senza coniuge a carico e con 38 anni di anzianità contributiva, nel 2020 dovrebbe poter contare su un tasso di sostituzione netto del 77,4%, tasso che nel 2035 cala al 70,7% per poi risalire fino al 73,3% stimato per il 2060. Per un lavoratore autonomo che versa contributi percentualmente inferiori, il rapporto pensione/reddito è pari al 74,3% nel 2020, al 66,8% nel 2035 e si allinea poi alla copertura dei lavoratori dipendenti.
Valori da non disprezzare, naturalmente a patto che la realtà lavorativa rispecchi le ipotesi con le quali sono state elaborate queste stime; un ingresso ritardato nel mondo del lavoro, un vuoto di contribuzione o la forzata perdita del posto di lavoro prima del raggiungimento dei requisiti minimi di pensionamento si traducono in ben altri tassi di sostituzione.
Le simulazioni confermano anche il miglioramento della copertura previdenziale che si ottiene aderendo alla previdenza complementare, il tasso di sostituzione arriverebbe a superare il 90%. Sotto questo aspetto, è da valutare positivamente l’attivazione di un meccanismo di adesione automatica, con il versamento del contributo a carico del datore di lavoro, adottato per i lavoratori dipendenti del settore edile: nel 2015 le adesioni al fondo di settore, Prevedi, sono aumentate dai 39 mila iscritti iniziali fino a coprire quasi l’intera platea di riferimento di circa 570 mila addetti.