(di Raffaella Caminiti e Paolo Mariotti – Quotidiano del Diritto)
Anche il risarcimento del danno patito in proprio dai congiunti della persona deceduta per colpa altrui deve essere ridotto in misura corrispondente alla percentuale di contributo causale all’evento dannoso attribuibile al comportamento colposo della vittima. È il principio di diritto enunciato con la sentenza n. 4208 del 17 febbraio scorso dalla Corte di cassazione che, tenuto conto del concorso di colpa del deceduto nella causazione dell’incidente stradale, ha cassato sul punto la sentenza della Corte d’appello, che aveva diminuito gli importi liquidati ai congiunti della vittima a titolo di danno iure hereditatis, non anche quelli riconosciuti a titolo di danno spettante iure proprio.
La pronuncia non si discosta dal consolidato orientamento giurisprudenziale (tra le ultime, la sentenza della Cassazione 23426/2014) secondo cui, in caso di concorso della condotta colposa della vittima nella produzione dell’evento dannoso, il risarcimento del danno (patrimoniale e non) subìto in proprio dai suoi congiunti va ridotto in misura corrispondente alla percentuale di colpa ad essa ascrivibile. La diminuzione del risarcimento trova fondamento normativo nel Codice civile, articoli 1227, comma 1, 2054 e 2055, comma 2.
Il principio ex articolo 1227 della riduzione del danno in proporzione all’entità percentuale dell’efficienza causale della condotta del danneggiato si applica non solo a quest’ultimo (che reclami il ristoro del pregiudizio sofferto e al cui verificarsi ha contribuito col suo comportamento), ma anche dei suoi congiunti «che, in relazione agli effetti riflessi che l’evento di danno subìto proietta su di essi, agiscono per ottenere il risarcimento dei danni iure proprio». Vige il principio di causalità, secondo cui non può farsi gravare sul danneggiante quella parte di danno che egli non ha prodotto.
La Cassazione conferma, tra l’altro, l’orientamento secondo cui l’uccisione di un prossimo congiunto dà luogo ad un danno non patrimoniale consistente nella perdita del rapporto parentale quando colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo (per l’appunto) di parentela, con possibilità per il giudice di aumentare, con valutazione equitativa, i valori monetari delle tabelle adottate dall’ufficio giudiziario «solo in presenza di situazioni di fatto che si discostino in modo apprezzabile da quelle ordinarie».
In ogni caso, il danno risarcibile non coincide con la lesione dell’interesse protetto in sé e per sé considerata, ma consiste in una perdita, cioè nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito dall’irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con cui normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare (si veda, tra le tante, la sentenza di cassazione 8828/2003). Quindi, il giudice deve accertare, con onere probatorio a carico dei familiari della vittima, se si siano determinati nei superstiti pregiudizi ulteriori rispetto a quelli normalmente connessi alla perdita repentina di uno stretto congiunto.
È, inoltre, riaffermata l’unitarietà del danno non patrimoniale e, conformemente all’arresto delle Sezioni unite del 2015, la irrisarcibilità iure hereditatis del danno tanatologico.