(di Alessandro Bugli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – Il Punto Pensioni & Lavoro)
La legge sulla concorrenza introduce interessanti disposizioni di riassetto e revisione della previdenza complementare in direzione di una maggiore flessibilità: quali prospettive per lo strumento della pensione integrativa alla luce delle ultime novità?
Dopo 894 giorni di travaglio vede la luce la legge concorrenza. È accaduto lo scorso 4 agosto, anche se la pubblicazione in Gazzetta è del 14 agosto 2017 (con conseguente entrata in vigore il giorno 29 dello stesso mese). Vede così la luce la c.d. legge 4 agosto 2017, n. 124 “Legge annuale per il mercato e la concorrenza”.
Per sua stessa definizione, la legge spazia dalla RC auto, alla telefonia, al diritto d’autore e (perché no?) tocca anche la materia della previdenza complementare. Data una “gestazione” così lunga, tutte le previsioni contenute nell’articolo 1, ai commi 38 e 39, della nuova legge, e riferite alla materia dei fondi pensione, sono già state ampiamente commentate in questi anni, con toni più spesso critici che di plauso all’opera del legislatore.
Qualche “mosca bianca” che seppe dirne bene esiste (chi scrive è uno di queste).
Prima di passare alle ultime riflessioni e lasciare che la nuova legge concorrenza spieghi i suoi effetti, riportiamo un quadro di sintesi delle novità (per un’analisi più dettagliata delle novità legislative si rimanda all’articolo Fondi Pensione, se il TFR si fa flessibile):
- Si prevede che i contratti o gli accordi collettivi, anche aziendali (con tematiche legate al rapporto tra contrattazione nazionale e aziendale su cui non ci concentreremo, ma tratteremo in futuro), possano fissare – per i lavoratori dipendenti che aderiscano collettivamente a un fondo negoziale o aperto – una misura minima di TFR da destinare a previdenza complementare. In assenza, la contribuzione presuppone l’integrale destinazione del trattamento al fondo pensione di riferimento.
- In caso di cessazione dell’attività lavorativa a cui consegua un periodo di disoccupazione involontaria per un tempo superiore a ventiquattro mesi, l’aderente può accedere al trattamento pensionistico (“o parti di ess[o]”?) con un anticipo di cinque anni rispetto ai requisiti per l’accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza. In tal caso la prestazione pensionistica, su richiesta dell’aderente, potrà essere erogata in forma di rendita temporanea, fino al conseguimento dei requisiti di accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio. Gli statuti e i regolamenti delle forme pensionistiche complementari potranno innalzare l’anticipo di cui al periodo precedente fino a un massimo di dieci anni. Per come coordinato con l’art. 14, l’articolo sembra consentire di ottenere la rendita temporanea anche nel caso della grave invalidità sopravvenuta ante pensione (aspetto toccato nelle pubblicazioni precedentemente richiamate e che le prime versioni della previsione in commento non chiarivano in termini così netti come oggi).
- Si estende, pur se con dizione impropria (“cessazione dei requisiti di partecipazione”), la possibilità di prevedere il riscatto degli importi presenti nel proprio libretto pensionistico anche per cause diverse dalla perdita di impiego (e per CIGO e CIGS) e dalla grave invalidità permanente anche per le forme pensionistiche ad adesione individuale.
- “Al fine di aumentare l’efficienza delle forme pensionistiche complementari collettive e delle preesistenti” e “anche al fine di favorire l’educazione finanziaria e previdenziale” si dovrebbe dare avvio a un tavolo di consultazione da convocarsi da parte del Ministero del Lavoro e del MISE a cui parteciperebbero organizzazioni sindacali e associazioni datoriali, COVIP e alcuni “esperti” della materia previdenziale per un processo di riforma che rispetti le seguenti linee guida:
“a) revisione dei requisiti per l’esercizio dell’attività dei fondi pensione, fondata su criteri ispirati alle migliori pratiche nazionali e internazionali, con particolare riferimento all’onorabilità e professionalità dei componenti degli organi collegiali, del responsabile della forma pensionistica complementare, nonché dei responsabili delle principali funzioni;
b) fissazione di soglie patrimoniali di rilevanza minima in funzione delle caratteristiche dimensionali dei patrimoni gestiti, dei settori di appartenenza, della natura delle imprese interessate, delle categorie dei lavoratori interessati nonché dei regimi gestionali;
c) individuazione di procedure di aggregazione finalizzate ad aumentare il livello medio delle consistenze e ridurre i costi di gestione e i rischi;
d) individuazione di forme di informazione mirata all’accrescimento dell’educazione finanziaria e previdenziale dei cittadini e sulle forme di gestione del risparmio finalizzato alla corresponsione delle prestazioni previdenziali complementari”.
La scelta di poter fissare una misura ridotta di contribuzione mediante TFR ai fondi pensione è, da un lato, comprensibile, al fine di attenuare la percezione dell’importante vincolo (di lungo termine) che consegue all’adesione a un fondo pensione per il potenziale aderente, dall’altro, lascia un poco stupiti, sapendo quanto poco “ricchi” siano gli zainetti dei più o meno 7 milioni di iscritti a previdenza complementare. In questo modo, in un modello a contribuzione definita, si rischia di ridurre la funzione di accumulo data dalla destinazione del TFR al fondo pensione, con impatti futuri non trascurabili con riguardo alle prestazioni complementari ottenibili.
Il diritto di poter accedere con anticipo al trattamento pensionistico complementare (che già esisteva nel d.lgs. 252 e ancor più per i fondi dei dipendenti pubblici contrattualizzati regolati dal vecchio d.lgs. 124/1993) si pone in logica coerenza con le finalità di RITA e anzi – a dire il vero – andava forse sostituito dalla stessa, prevedendosi magari il diritto di accedere anticipatamente al trattamento complementare, entro certi limiti temporali, senza necessità di giustificazione alcuna. Tutto questo finirebbe per dare nuova linfa e appetibilità alla previdenza complementare (più forse che la riduzione del TFR minimo conferibile) potendosi così raccontare a un giovane potenziale aderente che il suo fondo pensione potrà consentirgli di uscire con un certo anticipo dal mondo del lavoro e garantirgli qualche anno di riposo in più rispetto ai colleghi che non ci hanno mai pensato o non ci hanno pensato prima.
Pur nell’imprecisione della disposizione (v. seguito), la scelta di estendere il riscatto per cause diverse anche ai fondi individuali potrebbe dare anche qui una spinta alle adesioni, prevedendosi ad esempio il diritto di accedere in tutto o in parte ai propri risparmi previdenziali anche al lavoratore autonomo che “chiuda” la propria partita IVA (magari per una crisi importante di mercato, come quelle 2008/2011), così da potersi sostenere nel mentre e trovare nuove prospettive di mercato. La disposizione prevede però – testualmente – che questo riscatto si fondi sempre e comunque su una perdita “dei requisiti di partecipazione” al fondo pensione, pur se “per cause diverse” da quelle tradizionalmente fissate dal d.lgs. 252/2005 (perdita di impiego e grave invalidità). Vien quindi da chiedersi, quando è possibile che qualcuno possa perdere i requisiti di partecipazione a un fondo ad adesione individuale (che non richiede alcun requisito di partecipazione)? Ciò salvo morire?
Sul “tavolo di consultazione” si spera che la sensazione di sfiducia che si ha possa essere smentita e si auspica che ne possa derivare qualcosa di buono. Le finalità indicate sono tutte certamente commendevoli in un sistema sempre più alla ricerca: di fusioni e razionalizzazioni delle forme previdenziali esistenti; del necessario parallelo e contestuale aumento del numero di iscritti e; della destinazione di parte degli investimenti dei fondi di oggi e di domani all’“economia reale” (senza però, per questo, dimenticare il primario ruolo di strumento previdenziale e di tutela dei risparmi dei propri aderenti). Francamente poco chiaro l’incipit della previsione in commento, “strozzato” e limitato, testualmente, “…al fine di aumentare l’efficienza delle forme pensionistiche complementari collettive e delle preesistenti”. Le finalità dette dovrebbero valere per l’intero settore della previdenza complementare e non solo per le forme collettive o preesistenti. Gli stessi traguardi dovrebbero, infatti, essere raggiunti dall’intero sistema e, per questo, perseguiti anche dai fondi c.d. commerciali, ad adesione individuale.
Tutto interessante, ma cosa c’entrano tutte queste novità con lo sviluppo del mercato e della concorrenza: finalità primaria e unica della legge? Vero è che tutto è “mercato”, ma così facendo la legge si colora di contenuti che forse sarebbe stato meglio trattare in maniera organica in una diversa sede, magari dedicata al tema del welfare integrativo.
Siamo comunque al cospetto di disposizioni di riassetto e revisione della previdenza complementare – come sin qui conosciuta – intese a rendere ancor più flessibile lo strumento di quanto non lo fosse già nel 2005 e molto più simile a un “libretto di risparmio” con (anche) finalità pensionistica. In fondo, previdenza complementare non significa e non deve significare solo “pensione” di scorta, ma sostegno lungo tutto il corso della propria vita. Non mancheranno certo coloro che vedranno in questo modo (in parte) tradito il fine di risparmio pensionistico dello strumento. Ma ce ne faremo una ragione…