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Previdenza, quale futuro? Come orientarsi al di là della Busta arancione

Previdenza complementare - Domande (3) Imc

C’è un gap previdenziale da colmare, ma anche un gap informativo. Non solo gli italiani – soprattutto le giovani generazioni – dovrebbero integrare maggiormente con un piano di previdenza complementare la futura pensione pubblica che si annuncia più modesta di quella attuale ma, innanzitutto, dovrebbero conoscere meglio ciò che li aspetta per prepararsi in tempo.

Sono queste le principali conclusioni dell’indagine sul campo effettuata da ANIA e Gfk sulla “sensibilità al tema previdenziale” (riassunta anche in un booklet che l’associazione delle imprese assicurative ha presentato lo scorso 19 settembre durante il convegno “La nuova previdenza integrativa e la sfida dei PEPP”)

Il sondaggio, spiegano dall’associazione, era rivolto ai soggetti che hanno preso parte alle iniziative di trasparenza portate avanti dall’Inps in questi ultimi anni, ma anche a quanti – e sono la maggioranza dei futuri pensionati – non ne sono stati coinvolti.

Nei loro giudizi c’è un aspetto che li accomuna: tutti, chi più chi meno, sono consapevoli che c’è un deficit previdenziale che va ridotto per poter affrontare con serenità e fiducia la vecchiaia. Ai loro occhi è più pressante del deficit pubblico di cui leggono sui giornali, li riguarda direttamente e contrasta con l’immagine da “popolo delle formiche” che gli italiani hanno sempre dato di sé. Le famiglie continuano a risparmiare, anche se meno rispetto al periodo pre-crisi, i loro conti sono in ordine, riescono a fronteggiare i debiti con una capacità sconosciuta in altri paesi “ma volgendo lo sguardo al futuro compare un buco, quello previdenziale, di cui molti non riescono a scorgere la profondità e che allarma tutti”.

Gli interpellati nel sondaggio sono preoccupati in grande maggioranza (tra il 74 e l’82%) per il futuro economico che li aspetta quando smetteranno di lavorare. E stimano che il tasso di copertura pensionistica – l’importo della pensione in rapporto all’ultimo stipendio – si collocherà in futuro intorno al 60%, rispetto all’80% raggiunto negli anni d’oro del welfare state all’italiana, considerato sufficiente per mantenere il tenore di vita acquisito. La conclusione è scontata: c’è un gap previdenziale da colmare che, nelle risposte, varia tra il 13 e il 23% dell’ultimo stipendio.

Nel corso degli ultimi decenni, evidenziano dall’ANIA, il Parlamento è intervenuto a più riprese per correggere le regole del sistema previdenziale razionalizzando la spesa futura, così da evitare che andasse fuori controllo. L’intervento più radicale, la “riforma Dini” del 1995, ha comportato l’abbandono del criterio retributivo per il calcolo della pensione a favore del metodo contributivo. In precedenza l’importo della pensione era calcolato sommando una percentuale dell’ultimo stipendio (il 2%) per ogni anno di contributi. Con il nuovo metodo, invece, tutti i contributi versati nel corso della vita attiva vengono capitalizzati a un tasso pari all’incremento annuale del Pil e il montante così ottenuto serve a calcolare la rendita mensile.

Aver preso in considerazione tutti gli anni di vita attiva (anche quelli iniziali, con livelli minori di retribuzione e contributi) già ha comportato un abbassamento della copertura pensionistica. In aggiunta, il modesto sviluppo economico del paese sta aggravando la situazione. Nell’ultimo decennio, in particolare, la crescita del Pil non ha mai superato, in media, l’1% e in alcuni anni, quelli più duri della crisi, è stata addirittura negativa. I contributi previdenziali versati hanno così una bassa redditività. A parità di contributi versati, ogni punto in meno di Pil equivale, dopo 35 anni, a una rendita pensionistica più bassa del 16%.

Da questi pochi dati, evidenziano dall’associazione delle imprese assicurative, “ben si comprende perché occorra integrare la pensione pubblica con piani di previdenza complementare. Inoltre, una gestione professionale dei risparmi è in grado di conseguire performance più elevate rispetto a quella del Pil nazionale perché gli investimenti non sono vincolati da una frontiera e possono essere indirizzati dove i gestori intravedono le migliori opportunità”.

Nonostante questo e nonostante i significativi incentivi fiscali accordati dal Parlamento con la riforma del 2005, il flusso di risparmi aggiuntivi è ancora scarso. Secondo gli ultimi dati della COVIP (l’autorità di controllo della previdenza complementare) a fine 2017 erano 8,3 milioni gli italiani iscritti a una forma di previdenza complementare. E le somme accantonate per le future prestazioni, pari a 161 miliardi di Euro alla fine dello scorso anno, rappresentavano una quota modesta delle attività finanziarie delle famiglie (meno del 5%).

Secondo ANIA occorrerebbe quindi fare di più. Ma se gli accantonamenti non sono sufficienti la colpa non è solo della crisi economica e della penuria di risorse che le famiglie possono destinare al risparmio previdenziale. Il sondaggio Ania-Gfk mostra infatti un livello ancora elevato di analfabetismo previdenziale. “Ciò è tanto più grave – sottolineano dall’associaizone – perché, con l’attuale sistema di calcolo contributivo delle pensioni, solo stimando con buona approssimazione l’entità del gap è possibile integrare ridotte prestazioni pubbliche future”.

Esempi di questa diffusa mancanza di conoscenza? Il 71% del campione di interpellati non coinvolti dalle iniziative di trasparenza dell’Inps ha dichiarato di avere un’idea vaga o nessuna idea sulla propria età pensionabile. La percentuale si ribalta (29%) per quanti hanno effettuato il calcolo della pensione utilizzando i simulatori dell’Inps ed è inferiore alla maggioranza (46%) anche per chi ha ricevuto la Busta arancione dell’istituto. Solo l’11% dei “non coinvolti” ha poi dichiarato di avere un’idea precisa o abbastanza precisa sull’ammontare della propria pensione futura, rispetto al 44% del campione “buste arancioni” e al 52% di quello “simulazione Inps”.

La conclusione è evidente: la trasparenza fa bene anche quando porta notizie sgradite, come in questo caso. Perché allora si è aspettato tanto?

Dalla riforma Dini (1995) all’invio delle prime buste arancioni (2016) sono passati oltre venti anni. È un tempo che secondo ANIA “avrebbe potuto essere utilizzato meglio per rendere le famiglie italiane più consapevoli della necessità di un risparmio mirato. Tra l’altro, una maggiore tempestività avrebbe permesso di avviare la campagna di sensibilizzazione quando le condizioni economiche del paese erano migliori e maggiore era la propensione al risparmio delle famiglie. Oggi è tutto più difficile”.

Nel ritardo, secondo l’associazione delle imprese assicurative hanno pesato soprattutto i timori dei politici sugli effetti negativi della trasparenza in termini di consensi elettorali. Timori che si sono rivelati infondati, visto che oltre il 70% degli interpellati al sondaggio Ania-Gfk ha dichiarato di aver apprezzato le campagne informative.

Queste, peraltro, hanno riguardato un campione ancora troppo esiguo di popolazione. Ed è “un ulteriore aspetto che fa riflettere”.

L’Inps ha inviato 1,5 milioni di buste arancioni solo ad una parte dei lavoratori del settore privato (complessivamente sei milioni circa) che risultavano sprovvisti del Pin necessario per attivare i servizi telematici dell’istituto. Servizi tra i quali era compreso anche quello relativo alla simulazione della futura pensione. Solo una minoranza dei potenziali fruitori (due milioni su venti) ha però interpellato le banche dati dell’istituto per stimare l’importo della futura pensione. C’è quindi ancora una larghissima maggioranza di lavoratori privati (oltre venti milioni di individui) ancora non toccati dalle iniziative di trasparenza. Per non parlare dei lavoratori del pubblico impiego (oltre tre milioni) e dei fondi speciali dell’Inps, oggetto della nuova campagna di sensibilizzazione in corso con l’invio di 2,5 milioni di nuove buste arancioni.

In generale, il contenuto delle comunicazioni è stato apprezzato e giudicato chiaro e comprensibile, permettendo tra l’altro di verificare la correttezza dei dati riguardanti la storia contributiva dei lavoratori e di scoprire, in diversi casi, evasioni contributive prima della scadenza dei termini di prescrizione. Confrontando tuttavia la lettera dell’Inps con la lettera arancione che l’amministrazione svedese invia da anni (ha costituito l’esempio ispiratore dell’iniziativa italiana), secondo l’ANIA si rimane colpiti da una mancanza. In Svezia il contribuente è avvertito che l’ammontare della pensione futura dipenderà anche dalla sua pensione integrativa e dalle sue decisioni di investire i risparmi indirizzati verso quel canale. Nella Busta arancione made in Italy è invece assente qualsiasi riferimento alla previdenza complementare. Come un medico – conclude l’associazione delle imprese assicurative – che, fatta la diagnosi, si dimenticasse poi di prescrivere la cura.

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