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Cosa c’è nelle sporte dei rider? 10 miliardi di premi, forse

Riccardo Sabbatini
Riccardo Sabbatini

Gli assicuratori scoprono la Gig economy. La Geneva Association, il principale pensatoio dell’industria mondiale delle polizze, ha dedicato un lungo report a chi lavora nella Gig economy, l’economia dei “lavoretti” fatta di rider, centralinisti, occupati occasionali nelle tante piattaforme che pullulano su internet. Un universo che, nel mondo, occupa ancora una fascia relativamente ristretta del mercato del lavoro: circa il 3% (8 milioni di persone) della popolazione adulta degli Stati Uniti e l’1,7% (7 milioni di persone) in Europa. Sono giovani che però appartengono alle generazioni dei millennial e “Z”, quelli nati dopo il 1981, dove si concentra già attualmente oltre la metà della popolazione del pianeta. E, poiché la pandemia ha aumentato l’accesso ad internet ed ai lavori occasionali, l’area della gig economia si sta espandendo rapidamente ed è entrata nel mirino degli assicuratori che vi vedono un nuovo settore da intercettare.

Se ogni lavoratore saltuario impiegasse il 10% dei suoi redditi per acquistare una polizza – ha calcolato Geneva Association – un flusso di nuovi premi per circa 10 miliardi di dollari potrebbe affluire in tutto il mondo nelle casse delle compagnie. Ma l’impresa è ardita. I lavoratori della gig economy sono clienti complicati per un assicuratore. Hanno redditi saltuari, non godono delle garanzie previdenziali e sanitarie che assistono invece i lavoratori a tempo pieno tradizionali. Vivono alla giornata e i soldi che guadagnano gli consentono a malapena di arrivare a fine mese. Non certo di attivare piani di risparmio sufficienti a supplire ai maggiori gap di protezione. Ancora una volta, come già capita loro ad esempio con le catastrofi naturali ed i cyber risk , i professionisti delle polizze sono alle prese con rischi che non riescono a trasferire interamente sulle proprie spalle. Ancora una volta debbono subire la supremazia di un’entità, lo stato, che ha accesso a risorse maggiori di quelle che loro stessi possono impiegare.

 Lo schema immaginato dalla Geneva Association per colmare il gap di protezione della gig economy nasce da questa premessa. Assicurare un livello di protezione sociale di base a chi non può permettersela – spiega lo studio – è un compito che solo lo stato può assolvere. Naturalmente fare ricorso alla fiscalità è più semplice in paesi che hanno un welfare state consolidato ed un sistema sanitario nazionale pubblico, come accade normalmente in Europa, rispetto ad altri contesti – è il caso degli Stati Uniti – dove il sistema di protezione (per la previdenza e l’assistenza) poggia quasi interamente su operatori privati ai quali l’individuo accede direttamente o attraverso il proprio datore di lavoro. In questa battaglia tra sistemi in cui i lavoratori precari escono in ogni caso malconci quale può essere il ruolo delle assicurazioni? Queste – sottolinea il think tank delle compagnie – hanno “un ruolo importante da svolgere nell’integrazione dei sistemi pubblici”. Questi, ad esempio, “fanno ben poco in termini di promozione di incentivi per l’attenuazione del rischio, un aspetto importante ed un vantaggio socialmente rilevante offerto da meccanismi assicurativi privati basati sul rischio”. Il principale strumento di lavoro (e comunicazione) dei lavoratori precari è rappresentato da uno smartphone, ciò che apre insospettate potenzialità per favorire l’incontro con un assicuratore. Se una polizza Rc auto, per l’assistenza o gli infortuni, assume la forma di un contratto collettivo stipulato direttamente con la piattaforma presso la quale i lavoratori prestano la loro attività, il pagamento dei premi può avvenire direttamente attraverso la piattaforma o il cellulare del dipendente. Utilizzando lo stesso strumento come una sorta di black box è possibile promuovere comportamenti più virtuosi da parte degli assicurati per prevenire i sinistri. In caso di incidente, poi, uno smartphone può accelerare significativamente la perizia dei danni e i tempi dei risarcimenti. La compagnia, naturalmente deve avere l’accortezza di adattarsi alla natura di quei particolari clienti. Inutile proporre polizze annuali, non fanno al caso dei rider che invece potrebbero pagare il premio come frazione dei compensi che ricevono. Allo stesso modo la mobilità che caratterizza i lavoratori della gig economy quasi impone il ricorso a polizze pay per use e comunque a formule in cui il lavoratore può continuare ad essere protetto anche se cambia occupazione. Questi elementi ricorrono nelle esperienze che le compagnie stanno facendo in questa nuova frontiera della loro attività. Per i lavoratori di Uber in Gran Bretagna Axa ha sviluppato una copertura che compensa l’autista per i mancati guadagni quando il veicolo è fermo per incidente. Più ricco ancora è il pacchetto che anche Allianz ha sviluppato per Uber, disponibile in 23 paesi. Include anche congedi retribuiti per malattia, pagamenti per maternità o paternità, risarcimenti per disagi subiti in caso di presenza in tribunale. La MSIG di Singapore ha sviluppato un prodotto che eroga un sussidi ai gig-lavoratori non in grado di prestare i propri servizi a causa di un ricovero o di un congedo sanitario prolungato. Grab, la principale piattaforma per la micromobilità condivisa nel sud est asiatico, propone assieme all’assicuratore NTUC Income un piano di coperture variabili con premi commisurati alla lunghezza dei percorsi effettuati dagli autisti. Non è tutto, naturalmente, ma è qualcosa.

a cura di Riccardo Sabbatini

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