Durante la decima edizione del Salone è stata presentata l’indagine, realizzata da Finer per Assogestioni, sugli investimenti SRI e ESG: i millennial sono il target più sensibile ma i più propensi ad investire sono i baby boomer. Investitori e professionisti chiedono però più informazione e formazione
L’Italia è pronta per gli investimenti SRI: i criteri di sostenibilità, responsabilità sociale e inclusività potrebbero diventare presto da una parte i criteri decisivi per il risparmiatore nella scelta della banca o della SGR e dall’altra un fattore competitivo determinante per l’industria. Il target più sensibile a questi temi risulta essere quello dei millennial (i nati tra il 1980-2000) anche se, i più propensi agli investimenti, sono i baby boomer (la generazione dei nati tra il 1946-64). È questa la fotografia scattata dalla ricerca realizzata da Finer per Assogestioni e presentata durante la decima edizione del Salone del Risparmio (Milano, 2/4 aprile).
Secondo quanto è emerso dall’indagine*, basata su un campione di 1.700 individui (tra investitori finali, consulenti finanziari, private banker, operatori bancari, fund selector e gestori) il tema dell’informazione su questo tipo di investimenti risulta essere centrale: sia per ammissione degli investitori finali che dei distributori (banche e reti) e delle SGR.
La conoscenza dei temi, evidenzia la ricerca, è proporzionale al patrimonio investito: se da una parte il 49% dei clienti private e dei clienti HNWI (High Net Worth Individuals) descrivono correttamente gli ESG come investimenti che creano valore attraverso una strategia che integra, nella valutazione delle società in cui si investe, anche l’analisi finanziaria con quella ambientale, sociale e di buon governo, dall’altra parte invece, il 49% dei clienti mass market e il 42% dei clienti affluent e upper affluent, confondono gli ESG con gli investimenti «no profit» che mettono, cioè, al primo posto la salvaguardia ambientale, il rispetto dei diritti umani, della società, la parità di genere e razza, senza considerare i profitti e i rendimenti per l’investitore.
Anche la conoscenza della terminologia riflette questa proporzionalità col patrimonio investito. Se i termini italiani quali sostenibilità, responsabilità sociale e inclusività sono conosciuti ai più e principalmente a coloro che investono somme maggiori, le sigle risultano essere meno note a tutti: solo il 10% dei clienti private e HNWI conosce il significato della parola SRI, percentuale che scende all’8% per gli investitori affluent e upper affluent e il 4% per i mass market. Non va meglio per la sigla ESG conosciuta solo dal 12% dei private e HNWI, dal 13% degli affluent e upper affluent e dal 3% dei mass market.
Rispetto a qualche anno fa, tuttavia, le tipologie di investitori intervistate si dichiarano più sensibili ai temi SRI e, interrogate sul perché, gli investitori mass market individuano come primo motivo gli effetti dei cambiamenti climatici (91%), gli affluent e upper la crisi e il fallimento delle società che non rispettano i temi della SRI (77%) e i clienti private e HNWI (88%) il fallimento progressivo delle banche che non hanno rispettato questi valori.
Alla domanda sul chi dovrebbe veicolare le informazioni su questa tipologia di investimenti, la quasi totalità degli affluent e upper (98%) e il 92% dei private e HNWI individua, come prima risposta, il proprio referente per gli investimenti, mentre l’88% degli investitori mass market indica, nella propria banca o la società cui affida i soldi, il primo referente ideale. Anche le sgr diventano, per gli investitori, gli interlocutori adatti alle informazioni su questa tipologia di investimenti: lo pensano il 72% dei private e HNWI, il 64% degli affluent e il 43% dei mass market.
La principale barriera alla sottoscrizione di prodotti ESG risulta essere la mancanza di chiarezza per tutte le tipologie di investitori intervistati: per i mass market al 75%, per gli affluent & upper al 43%, per i private e HNWI al 31%.
Per quanto riguarda invece l’altra faccia della medaglia, quella cioè dei professionisti, l’indagine di Finer evidenzia come gli investimenti SRI siano correttamente descritti dai consulenti finanziari e private banker, ad eccezione dei bancari tra i quali, un buon 22% lo associa ancora alle associazioni no profit.
Rispetto a qualche anno fa, fotografa l’indagine, è aumentata l’importanza dei prodotti ESG all’interno delle banche per tutte le tipologie dei professionisti, in primis gli asset manager (81%), seguiti dai fund selector (77%), i consulenti finanziari (72%), i private banker (64%), gestori bancari (41%).
E i clienti? Secondo i professionisti gli investitori finali sono poco informati. La mancanza di chiarezza evidenziata da parte dei risparmiatori trova dunque riflesso nelle risposte che i professionisti danno sulle cause principali di una mancata sottoscrizione: la mancanza d’informazione. Tra le leve per aumentare l’interesse a sottoscrivere prodotti di investimento sostenibile e responsabile il parere è unanime: maggiore informazione ed educazione finanziaria.
“L’Italia è un paese per gli investimenti SRI – ha dichiarato Nicola Ronchetti, CEO di Finer – le motivazioni degli italiani sono sia di natura generale come la sopravvivenza del globo, il futuro dell’umanità, che specificamente finanziarie: maggior affidabilità, stabilità dei rendimenti, riduzione del rischio e solidità delle aziende che sposano questi criteri. Partire dalla sensibilizzazione degli italiani per arrivare agli aspetti finanziari sarà la ricetta vincente per l’industria del risparmio gestito nei prossimi anni”.
“La sostenibilità applicata alla gestione di portafoglio consente di compiere un passo decisivo in ottica di gestione del rischio, rendendo più profonda e solida l’analisi alla base di ogni strategia di gestione”, ha aggiunto Michele Calcaterra, AD di ECPI Group.
La finanza sostenibile, dunque, rappresenta uno stile di gestione da cui non si deve e può prescindere, applicabile a qualsiasi strategia. “Se si considera – ha proseguito Calcaterra – che già ora circa il 50% degli investimenti considerano il rating ESG alla base del processo di selezione non è lontano il momento in cui il rating di credito e quello di sostenibilità (ESG), ‘coabiteranno’ nel medesimo processo di analisi concorrendo a definire un giudizio univoco sulla solidità dell’azienda”.
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*Nota di metodo e campione. La ricerca che ha coinvolto 1.700 individui con le seguenti caratteristiche: 1.000 investitori finali, segmentati per tipologia ed entità degli investimenti finanziari, 200 mass market (con investimenti finanziari da 10.000 a meno di 50.000 Euro), 200 affluent (50.000-200.000 Euro), 300 upper affluent (200.000-500.000 Euro), 200 private (da 500.000 fino a 5 milioni) e 100 HNWI (oltre 5 milioni di Euro). 600 professionisti (200 consulenti finanziari, 200 private banker e 200 operatori bancari), banche specializzate ed universali nazionali ed internazionali, ottanta fund selector (responsabili delle gestione di fondi di fondi (gestioni in delega e sub-advisory), che operano in realtà nazionali ed internazionali, reti di CF, banche specializzate ed universali), venti gestori, selezionati tra coloro che operano in grandi gruppi bancari, indipendenti, realtà nazionali e internazionali, operatori specializzati prevalentemente in prodotti attivi e/o passivi. Le interviste sono state realizzate telefonicamente dall’11 Febbraio al 6 Marzo 2019