(di Adriano Bonafede – Repubblica Affari & Finanza)
A tre anni l’indice di piazza Affari delle compagnie è negativo ed è inferiore persino all’indice generale, mentre in Europa le imprese hanno corso. Le quattro quotate hanno storie e mix di business diversi, ma solo la più piccola, Vittoria, ha un segno più sulla performance
Quattro storie assai diverse ma con un unico comune denominatore: in Borsa, negli ultimi tre anni, hanno fatto, tutte insieme, non soltanto peggio dell’indice assicurativo europeo, ma persino peggio del già provato Ftse Mib. Singolarmente prese, soltanto una, la più piccola, è riuscita a sorpassare decisamente l’indice della Borsa italiana – risultato negativo con un meno 8,67 per cento (dati al 5 aprile scorso) – e ad avere un segno positivo nei tre anni. Mentre la più grande ha fatto un po’ meglio di tale indice, ma rimanendo sempre in territorio negativo, soltanto grazie all’andamento degli ultimi tre mesi. Generali, Unipol, Cattolica, Vittoria sono le imprese assicurative italiane rimaste quotate in Piazza Affari, dopo l’uscita, qualche anno fa, delle società del gruppo Ligresti, Fondiaria e Milano, assorbite da Unipol. Generali, il colosso italiano, è andata leggermente meglio dell’indice Ftse Mib, fermandosi a un meno 3,68 per cento nei triennio; ma se non fosse stato per l’interesse manifestato da Intesa, che ha di fatto portato su il titolo tra gennaio e marzo in previsione di un’Opa che poi non c’è stata, il risultato sarebbe stato di gran lunga inferiore a quello del Ftse Mib. UnipolSai, la seconda compagnia italiana, ha perso più o meno quanto l’indice generale di Borsa (meno 8,42 per cento). Cattolica, la compagnia cooperativa, è letteralmente affondata con un meno 27,39 per cento ed è stata la peggiore del gruppo. Soltanto Vittoria ha un segno più (15,74 per cento) sul titolo a tre anni.
Globalmente prese, queste quattro società costituiscono l’indice della Borsa italiana “Ftse Italia assicurazioni”, che negli ultimi tre anni ha perso il 15 per cento (va precisato però che questo indice non considera i dividendi erogati, ma anche considerandoli resterebbe negativo). Al contrario, l’Eurostoxx Insurance, l’indice delle compagnie quotate europee, ha messo a segno nello stesso periodo un più 18 cento. Basterebbe soltanto questo dato d’insieme per capire che le imprese assicurative italiane quotate, rispetto a quelle del continente, hanno un “male oscuro”. Che viene da lontano. E che ha diverse sfaccettature.
L’effetto Italia
La cosa sorprendente è che non importa se siano più esposte al ramo vita o al danni, se abbiano una storia piuttosto che un’altra. La situazione non va bene in ogni caso, è come se le imprese italiane fossero prigioniere di un fato maligno, a parte la piccola Vittoria. «Il male oscuro delle assicurazioni italiane – dice Giuseppe Mapelli, analista di Equita Sim – è… l’Italia stessa. Guardiamo a Generali e a Unipol, due storie completamente diverse, entrambe – ritengo – penalizzate dal mercato. Generali ha soltanto il 40 per cento dell’utile operativo che arriva dall’Italia, è quindi presente soprattutto all’estero. Ma non sembra contare molto agli occhi degli investitori perché ha in pancia 60 miliardi di Btp italiani, e tanto è bastato a vederla con sospetto. Al contrario, Unipol è tutta italiana, ha il 65 per cento dei premi nel ramo danni e ha una storia di successo nella ristrutturazione delle due compagnie di Ligresti, Fondiaria e Milano. Diciamo la verità: se semplicemente non fossero in Italia, Generali e Unipol varrebbero certamente qualcosa di più».
Quando c’è troppa Vita
Ma ci sono anche fattori più strutturali. Generali è esposta per il 70 per cento al ramo vita, e di questo 70 per cento la quota preponderante è nel ramo I, quello delle polizze tradizionali a rendimento garantito. “Ciò – spiega Massimo Figna, fondatore e ceo di Tenax Capital Asset Management, con sede a Londra – fa dipendere il Leone di Trieste dai tassi d’interesse assai più delle altre grandi colossi europei, che da tempo hanno diversificato in altri tipi di polizze, quelle unit linked, che non hanno rischio di tassi”. L’ad di Generali, Philippe Donnet, sta da tempo operando per vendere più unit linked, ma per trasformare il portafoglio ci vogliono molti anni perché occorre attendere che le vecchie polizze vengano a scadenza. Comunque, la pur leggera risalita dei tassi in atto dovrebbe avvantaggiare Generali nel prossimo futuro.
Poco diversificate
Le compagnie italiane sono troppo poco diversificate. «Allianz e Axa – dice Gian Luca Ferrari, analista di Mediobanca Securities – hanno in pancia grandi operatori di asset management: si pensi per la prima a Pimco e AGI, e per la seconda a Alliance Bernstein e Axa IM, colossi al cui confronto Banca Generali è una goccia nel mare». Si tratta di un vecchio problema, di cui Donnet è ben conscio, tanto che si era parlato di un interesse di Generali per Pioneer, la società del risparmio gestito di Unicredit poi finita ad Amundi. Ma a maggio, secondo indiscrezioni, Donnet dovrebbe annunciare un nuovo progetto sull’asset management.
Il link con le banche
Alcune compagnie, come Unipol e Cattolica soprattutto, ma un po’ anche Generali, hanno risentito dell’eccessiva esposizione verso le banche italiane, che sono state in questi ultimi anni il vero buco nero di Piazza Affari. Il Leone di Trieste ha messo 400 milioni nell’ultimo aumento di capitale di Mps e si ritrova in pancia anche qualche bond subordinato di altri istituti barcollanti. L’ad di Unipol, Carlo Cimbri, ha ricapitalizzato, dal 2010 per 200 milioni la propria banca mentre la holding ha accantonato oltre 600 milioni sui crediti bancari su cui ha siglato un accordo di indennizzo. Ma adesso Cimbri sta lavorando ad un nuovo progetto: creare una newco con i 1100 milioni di crediti in sofferenza della banca. Inoltre, ha impegnato su Atlante 200 milioni, che ha già parzialmente svalutato.
Cattolica ha svolto negli ultimi anni una complessa ristrutturazione e tre anni fa aveva fatto un aumento di capitale da 500 milioni. Poi ha effettuato svalutazioni per 157 milioni sulle partecipazioni in Bpvi, Veneto Banca e Cassa di risparmio di San Miniato. In Atlante ha messo 40 milioni.